C. B. vs Eusebio (in appendice Celentani e altri animali fantastici)

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frammento di un articolo di Paolo Mauri per la Repubblica

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Non so se è stato un caso, ma proprio nei giorni in cui leggevo il libro di Testa è spuntato un Montale par lui- même che è la raccolta integrale di tutto quanto Montale stesso ha scritto o detto di sé: infatti il volume ha un sottotitolo: Interviste, confessioni, autocommenti 1920- 1981: insomma uno strumento utilissimo molto ben curato da Francesca Castellano per la Società Editrice Fiorentina. Non avevo ancora finito di leggere il libro della Castellano che mi arrivava un volumetto di Antonio Giusti pieno di personaggi incontrati dall’autore intitolato Memorie scompagnate (Apice libri) con in copertina Montale accanto a Carmelo Bene.

Antonio Giusti è un industriale: lui e sua moglie Susi hanno una villa a Forte dei Marmi nella quale Montale ha trascorso diverse estati. Nella fotobiografia di Montale curata tanti anni fa da Franco Contorbia, ci sono foto del poeta con i suoi ospiti. Non sapevo che nella stessa casa incrociava anche Carmelo Bene con sua moglie Lydia Mancinelli.

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Racconta Giusti che in privato Bene parlava male di Montale sostenendo che non era un vero poeta e Montale parlava male dell’attore dicendo che era un guitto o addirittura un delinquente abituale. Poi , trovandosi insieme, discutevano e sembravano addirittura andare d’accordo. Carmelo Bene aveva deciso che l’unico poeta del Novecento era Dino Campana. Per provocarlo qualcuno recitava un verso di Montale e Bene recitava subito il resto con la sua voce profonda e inconfondibile. Sapeva molto Montale a memoria.

Comunque durante la vacanza si incontravano poco perché Montale andava a letto alle undici, mentre Bene stava alzato tutta la notte bevendo molto e coinvolgendo chi c’era nelle sue recite shakespeariane. Una sera aveva sedotto una ragazza alla quale recitava parole d’amore suscitando la rabbia della moglie che a un certo punto gli era balzata addosso staccandogli con un morso un lobo dell’orecchio. Sangue, urla, pentimento di lei e via di corsa al pronto soccorso dove invano cercava di far passare Carmelo avanti a tutti con la scusa che era un genio…

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La mattina dopo Montale si era alzato verso le dieci come al solito e non sapeva nulla del trambusto notturno, durante il quale si era anche rotto un lume. Tutto fu attribuito al gatto. Anche la vistosa fasciatura dell’attore. E Montale che certo aveva intuito e subito aveva notato la mancanza del lume finse di crederci con la sua aria sorniona e per tutta l’estate dette la colpa al gatto di qualunque cosa accadeva, anche molto lontano da lì.

Da

2 giugno 1968
Incontro con Eugenio Montale

Il galateo di monsignor Eusebio

di Camilla Cederna

Milano – «Sono Celentano e voglio parlare con Montale», disse al telefono una voce arrogante. «È partito», rispose Montale. «Cosa vuole?».
«Gli dica che sono arrabbiatissimo, che gli darò querela», fu dall’altra parte la concitata risposta. E, con un pacato: «Va bene, riferirò», Montale riappese il ricevitore.
Ma la querela lui non la teme. È vero che elencando i personaggi famosi che figurano in una collana di Longanesi nel suo ultimo elzeviro sul Corriere egli citò anche il «sedicente cantante Celentano», ma chi dice che è un insulto? «Io mi limito a costatare un fatto: che lui dice di essere un cantante. Non è un’offesa, non è un giudizio morale: che poi questa sua qualità io l’affermi o la neghi, spetta alla malignità della gente stabilirlo».

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Tornando ai cantanti (il bell’elzeviro che mandò in collera Celentano era dedicato al fenomeno Callas), Montale è convinto che genio e imbecillità devono essere le loro principali componenti.

Genio in dose omeopatica, qualche scintilla a far tanto: e imbecillità moltissima, ché una persona intelligente, anche se ha voce (ecco il suo caso personale, prendeva lezioni dal maestro Sivori che lo considerava un baritono dei più promettenti, ma le prendeva di nascosto vergognandosene un po’), non ce la fa ad arrivare fino al palcoscenico, data la quantità di cose ridicole da affrontare, la barba finta, la spada, la calzamaglia, il cerone, il petto del soprano, la voragine della sua bocca spalancata a un centimetro di distanza, oltre a quel ripetere cinquanta volte e sempre peggio la stessa frase.
È un po’ di tempo però che di cantanti Montale non ne sente, da quando cioè ha smesso di fare la critica musicale, così adesso alla Scala non ci va più. Né lo invitano alle prove generali, da quando il sovrintendente Ghiringhelli gli ha bocciato la prefazione per un volume sulla Scala nel ventennale della ricostruzione. Non è stato comunque il sovrintendente a comunicargli il rifiuto; ma l’ufficio stampa, con una telefonata che diceva grazie tante, ma il pezzo non va bene, perché s’è permesso di dare dei giudizi personali (forse sette righe d’elogio al maestro Siciliani?).

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Del resto dai direttori o sovrintendenti dei teatri lirici lui non s’aspetta granché: non molto tempo fa uno di costoro infatti ricevette in omaggio dei dischi della Deutsche Grammophon, e la lettera d’accompagnamento finiva con due versi di Federico Hölderlin sulla musica che più di ogni altra arte affratella gli uomini: e non ringraziò lo sciagurato indirizzando la lettera a Federico Hölderlin, Berlino, direttore dalle Deutsche Grammophon? (Lettera subito fotografata e mandata in giro per il mondo con commenti ironici del vero direttore).
Con quel suo viso fuori d’ogni norma, a vari piani rotondi, scosso inoltre da qualche tic non inquietante (come gonfiare e sgonfiare adagio adagio le guance, il che aggiunge una superficie rotonda in più all’insieme), quando smette di parlare, Montale pare che faccia le fusa in poltrona ruminando i ricordi, ma non c’è domanda che non accetti, e a cui di buon grado non risponda. Ma sì, anche sui giovani naturalmente, e sui loro movimenti, coi quali però non si può identificare, per il semplice fatto che lui non è mai stato giovane, non lo è mai stato perché nessuno gliel’ha detto mai, e di solito è quando vengono dette che le cose si sanno.
Lui era il più giovane della famiglia, e aveva soltanto amici più vecchi, così quando conobbe Sbarbaro che gli era maggiore di sette anni, lo trattava con reverenza e quasi gli venne un collasso il giorno che gli propose di dargli del tu. Quel che poi vogliono fare della scuola i giovani d’oggi, sia così privilegiati (tutte quelle borse di studio, i campeggi, i viaggi, i divertimenti vari, e oltre tutto possono cominciare una carriera politica a venticinque anni), a Montale non è chiaro. In realtà, e qui la sua faccia si arriccia un pochino dal divertimento, se si organizzassero bene per distruggere completamente lo Stato, potrebbe anche nascere una cosa curiosa. Ma è sicuro che non lo faranno perché son tutti in cerca di una sistemazione.

Né d’altre parte si sa cosa sarà la scuola di domani, dati i professori e i laureati di oggi. Non sono pochi gli studenti che gli scrivono per chiedergli cos’era il Gabinetto Vieusseux che egli dirigeva, perché i loro professori non lo sanno. Quei pezzi d’asino, commenta sbuffando di nuovo: e si che al Vieusseux ci andava gente come Manzoni e Leopardi.

E intanto le cattedre vanno moltiplicandosi, e le cosiddette scienze dell’uomo, ogni giorno ne nasce una, compresa la semiologia che in un recente congresso è stata definita una scienza di cui s’ignora tutto, son poi materie che dovrebbero rientrare nelle curiosità individuali, senza essere studiare a scuola. Obbligatorie a scuola dovrebbero essere solo la lingua italiana (che nessuno sa più) e l’educazione: tutto il resto facoltativo.
Insieme a Carlo Emilio Gadda, Montale (noto come Eusebio tra gli uomini di lettere) è certo l’unico oggi, almeno fra i letterati, a dar prova di un’educazione di altri tempi, piccoli inchini, rigide attese, mano tesa ad indicar precedenza, tutto un minuetto davanti alle porte; è accompagnato dalla fama di burbero e scontroso, ed è invece gentilissimo con tutti «specialmente con la piccola gente, un po’ meno con l’alta» egli precisa. E qui ricorda lo stupore di una sua compagna di ascensore di qualche tempo fa, la vecchia cameriera di un avaro (così avaro da scegliere il suo personale fra gente tremula e fatiscente, perciò di poche pretese, e questa aveva candida la testa, grossi pacchi in braccio e gonfie vene bluastre nelle gambe). Rimase ferma nel suo angolo una volta giunta al pianterreno, quindi: «Prego», gli disse. «Esca prima lei». E: «No», fece Montale. «Passi lei per piacere». « Ma cosa dice?», ripetè la vecchia: «io sono una donna di servizio». E lui pronto: «Anch’io sono un uomo di servizio», e con un inchino le lasciò il passo.

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In mezzo all’“alta gente”, quando è costretto ad andare a un ricevimento o ad un cocktail, Montale è spesso a disagio: alieno com’è da tutte le moine sociali, in queste occasioni è specialista nel farsi sempre più remoto, come distaccato, e composto in una specie di sua allegrissima noia. Basta farglisi vicini infatti a guardare insieme a lui una persona o una cosa, perché la battuta ironica affiori insieme al divertente ricordo.
«Mi fa venire in mente un ricco signore che conobbi a Firenze tanti anni fa», dice avvistando uno dei tanti ingredienti oggi indispensabili a una riunione mondana, cioè un uomo cortesissimo dai modi femminei. «Un tale che credevo morto da un pezzo, invece l’ho visto di recente a Lucerna, sui novant’anni, direi, con una parrucca, e tutto desolato perché il suo giovane amico se n’era andato lasciandogli un biglietto e portandogli via la Rolls Royce. Sono autofinanziamenti, mi dicono, che in quegli ambienti sono di ordinaria amministrazione».

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Antifonte di Ramnunte

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Nell’Etica Eudemia Aristotele ricorda che Antifonte di Ramnunte, oratore ateniese e artefice, tra gli altri, della Boulé dei 400 che prese in mano le redini della politica ateniese con il colpo di Stato oligarchico del 411, appena sostenuto un discorso a sua difesa nel processo intentatogli dopo la caduta dei 400, processo conclusosi con la sua condanna a morte, rispose così all’elogio di Agatone: al saggio un solo giudizio, ma di persona competente, vale assai più di molti giudizi qualunque (1232b). Il discorso di Antifonte fu davvero eccellente, così come attesta Tucidide che ebbe forse modo di ascoltarlo di persona. Questo dovrebbe essere uno dei pochi fari a dominare il nostro cammino. I giudizi della marmaglia non valgono nulla, i pareri di un gruppo quasi informe di plebei ipnotizzati, giorno per giorno, da voci che dicono loro che potranno essere quello che vogliono, di essere tutti artisti e geni, tra poesie che fioriscono nel cuore e un canto d’amore, questa mediocre e indistinta melma di buzzurri che opinano sopra qualsiasi cosa, come fa la peggior teppa giornalistucola, non sono degni di ascolto… a parere mio neppure sono più degni di quei tentativi folli e scriteriati di soccorso e pietosa dottrina. Guardali, questi campioni dei tempi presenti, sempre di fretta per inseguire il loro nulla, a ciancicare parole altrui, frasi altrui, pensieri altrui, a propalare a colpi di “da leggere tutto” “devi vederlo” “devi sentirlo” le loro banalità quotidiane, il manualetto del cittadino comune che si illude di fare parte di cerchie ristrettissime, di conventicole neocarbonare, guardali e vedrai come procedono in gruppo, senza neppure sapere quale è la pecora a guida, avanzano per i rivoli artistici (danno nome d’arte a quello che pensano li possa far sentire intelligenti, come certi monaci che battezzavano pesce la carne di venerdì) guardali e vedrai che fanno, dicono e guardano le stesse cose, seguendo l’eco modaiolo della solita nazione lontana, seguendo musiche tribali tum tum dove di eccellente c’è l’intuizione di rifilare ad ignoranti questo borbottio semianalfabeta, guardali e, l’hai fatto già, capiterà sempre una debolezza, ascoltali consigliare la visione della banalità 7 premi, 2 oscar, una grolla, sgrollateli di dosso codesti ricercatori di banalità sommerse, due dita di sterco sopra e prendono patate per pepite. Guardali e ricorda Antifonte di Ramnunte.

Franz Kafka in Italia, tra aerei, d’Annunzio e pulci.

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A Brescia, una sera tardi, volevamo andare rapidamente in una certa strada che, secondo noi, doveva essere piuttosto lontana. Un vetturino ci chiede tre lire, noi ne offriamo due. Il vetturino rinuncia alla corsa e per pura amicizia ci descrive la lontananza addirittura paurosa di quella via. Allora incominciamo a vergognarci dell’offerta che avevamo fatto. Bene, facciamo tre lire! Montiamo, la carrozza fa tre svolte per brevi stradette ed eccoci alla meta. Otto, più energico di noi due, dichiara che non ha nessuna intenzione di pagare tre lire per una corsa che è durata un minuto. Dice che una lira è più che sufficiente. Ecco qui la lira. È ormai notte, la stradetta è deserta, il vetturino robusto. Questi si riscalda subito come se la lite durasse da un’ora: “Come? Questo si chiama imbrogliare. Cosa credono loro? Si sono pattuite tre lire e tre lire devono essere. Fuori le tre lire o la vedrete!” Otto: “Vogliamo la tariffa o chiamiamo le guardie” La tariffa? non esiste tariffa. E poi che c’entra la tariffa? Si trattava di un accordo per una corsa notturna, ma lui era disposto a lasciarci andare se gli pagavamo due lire. Otto, con voce da far paura: “La tariffa o le guardie!” Dopo grida e ricerche quello estrae una tariffa sulla quale non si vede altro che sudiciume. Ci mettiamo d’accordo per una lira e cinquanta e il vetturino prosegue per quella via stretta nella quale non può voltare ed è non solo furibondo ma anche, mi sembra, malinconico. Infatti il nostro comportamento non è stato giusto, purtroppo; così non si deve fare in Italia, può darsi che sia bene altrove ma non qui. Ma nella fretta chi sta a pensarci? non c’è niente da fare: in una breve settimana aviatoria non si può certo diventare italiani

F. Kafka, Gli Areoplani a Brescia

Franz Kafka nel 1909 chiese una vacanza per ragioni di salute, i suoi nervi erano logorati dal continuo lavoro di ufficio e dalla assenza di qualsivoglia periodo di pausa negli ultimi tre anni. Armato di certificato medico lo scrittore presentò richiesta ufficiale e ricevette un permesso straordinario di 8 giorni. Ad inizio settembre Kafka e i fratelli Brod giunsero presso Riva del Garda per godersi un po’ di riposo in un luogo che, come oggi, era una meta molto gradita per i sudditi dell’allora impero. Non sarà l’unica volta che Kafka andrà a Riva, nel 1913 questo luogo rappresenterà per lui una sorta di piccolo rifugio. In entrambi i casi Kafka soggiornò presso il Sanatorium del Dr. Von Hartungen.
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Le giuste proporzioni (breve racconto)

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Jonathan Janson, Girl in Hyacinth Blue

Il Paradiso… il Paradiso… voi non potete sapere… voi non potete capire quante notti ho passato in contemplazione del cielo e mi rompevo la testa, colpi duri, sopra il cranio, per pensare meglio, nel dolore, a quella visione che m’era negata. Cristo, Dio, il Paradiso, la Rosa celeste, la visione della luce eterna e immensa, ma dove, dove mi sarei trovato, quanto avrei atteso? Quale fila interminabile è per le anime in attesa di giungere al cospetto del Signore e quanti peccati avrò da espiare… eppure io non pecco, non pecco molto oramai, cose comuni, niente stragi e niente scannamenti, non ho neppure le braccia forti, ma attorno sono tanti come me, mediocri come me, con i loro piccoli peccati, le loro colpe comuni… e pensavo, pensavo, come ascendere, come conquistare un seggio in Paradiso, prima fila, centrale, davanti a Dio, lo schermo immenso, la luce del Proiettore Universale sempre accesa.

Una di quelle notti, perse senza dormire, a tratti scivolando in quei brevi svenimenti che ci permettono di proseguire la veglia, capì che Dio, Dio che ci ama tutti, ma che vuole da noi ubbidienza, sa valutare con le dovute proporzioni di tempi e modi. Epoche dove non vi sono guerre, dove non si diventa generali o boia, dove non vi sono carneficine attorno a noi, sono epoche dove le colpe sono per forza cosa da poco, allora ecco che nel grande abaco stellare quel peccatuccio che valeva 1 vale 10, dunque ancora più lunga l’attesa, l’espiazione, il battere sconsolato alle porte eterne. E allora capii, capii che da questo mio luogo lontano e notturno, oscuro e deserto, da questo precipizio di terra che mi tormentava potevo scalare fino alla Visione solo ammonticchiando peccati altrui, salire sopra le carcasse disanimate, scalare di peccatore in peccatore e trovai il trucco. Il trucco è banale, lo so, ma alla mia mente appare maestoso, come capita spesso per un sogno coltivato al buio. Io non posso innalzarmi con le mie forze, troppo debole, anche lasciare i miei peccatucci mi è impossibile e, pur facendolo, non sarei il solo, allora mi sono convinto che dovevo aggravare quelli degli altri, spingerli a condurre una vita votata alla perdizione più estrema, peccare, peccare gravemente, peccare sopra ogni cosa, bestemmiare senza alcun ritegno, dalla mattina alla sera, peccare con la carne, con lo spirito, con la mente, prendere talmente dimestichezza da non porsi più alcuna questione, salvo per alcuni istanti, istanti di superbia e piacere, istanti fatti per rinfuocare il desiderio del peccato… in quei momenti, io lo sapevo bene, uno poteva vantarsi delle sue bestemmie, delle sue imprecazioni, farne a gara, scagliarne con il gusto di una sfida prelibata e attesa, per poi affondare nuovamente in una insensibile quotidianità del peccato più torbido e basso.

L’ho fatto, sì, ho portato avanti il mio piano, di anno in anno ho accresciuto le manchevolezze di chiunque mi sia venuto a tiro e poi, con tutti i mezzi a disposizione, ho propagato l’infezione, di orecchio in orecchio, di mano in mano, fino a coprire molto e molto spazio… Dio è giusto e valuta secondo proporzione, vedrà le colpe di chi mi era attorno, la gravità del loro male, soppeserà e mi accoglierà nuovamente al suo cospetto, madido e sporco dei cadaveri che ho dovuto scalare, ferito e insozzato dai peccatori che ho dovuto scavalcare… aprirà le sue porte, le sue porte eterne e  i cherubini mi porteranno al mio posto, là, proprio davanti a Dio… e non mi ribellerò mai più.

Dalla Vita di Antonio di Atanasio di Alessandria

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25.1. I demoni sono astuti e pronti a ricorrere a ogni inganno e ad assumere altre sembianze. Spesso fingono di cantare i salmi senza farsi vedere e citano le parole della Scrittura. 2. E a volte, quando leggiamo la Scrittura, subito come un’eco ripetono le parole che abbiamo lette; e spesso ci svegliano per farci pregare quando dormiamo e lo fanno continuamente, senza quasi permetterci di dormire. 3. Altre volte assumono le sembianze di monaci, fingono di parlare come uomini di fede per trarci in inganno mediante un aspetto simile al nostro, e poi trascinano dove vogliono le vittime dei loro inganni.

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4. Ma non bisogna prestar loro attenzione neppure quando ci svegliano per farci pregare o ci consigliano di non mangiare affatto, e neppure quando pretendono di accusarci e di rimproverarci per dei peccati di cui sono a conoscenza al pari di noi. Non fanno questo per amore di Dio o per amore della verità, ma per trascinare i semplici alla disperazione e affermare che l’ascesi è inutile; 5. per indurre gli uomini al disgusto per la vita solitaria, prospettandola come pesante e gravosa e per ostacolare chi così vive lottando contro di loro.

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26.1. Il profeta inviato dal Signore compiangeva i demoni quando diceva: Guai a colui che dà da bere al suo prossimo per indurlo a scoprire la sua vergogna. Tali raggiri e tali pensieri distolgono dalla via che conduce alla virtù. 2. Il Signore stesso, anche se i demoni dicevano la verità – e infatti dicevano il vero quando gridavano: Tu sei il figlio di Dio –, imponeva loro il silenzio 3. e impediva loro di parlare perché non avvenisse che, insieme alla verità, seminassero la loro perfidia, e per abituare anche noi a non prestare mai ascolto ai demoni, neanche quando sembra che dicano il vero.

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4. Abbiamo le Scritture e la libertà dataci dal Salvatore, non ci conviene ricevere ammaestramento dal diavolo che non fu capace di stare al proprio posto, ma passò da un modo di pensare all’altro. 5. Per questo il Signore, anche quando il demonio ripete parole delle Scritture, gli impedisce di parlare dicendo: Dio ha detto al peccatore: Perché enumeri i miei precetti e tieni sulla bocca il mio patto?

 

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6. Fanno di tutto e dicono qualsiasi cosa, si agitano, simulano, creano turbamento per trarre in inganno i semplici. Fanno baccano e frastuono, ridono sguaiatamente e sibilano, ma se non si presta loro attenzione, finiscono per piangere e lamentarsi come dei vinti.

(testo preso da http://www.monasterovirtuale.it/i-dottori-della-chiesa/s.-atanasio-vita-di-antonio.html )

(foto aggiunte da me)

Accordo per l’umanità

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Facciamo un accordo. Per il bene dell’umanità, dei bimbi, dei cervelli, del pueblo, togliamo dagli scaffali tutti i libri di autori che abbiano fatto mostra, in privato o in pubblico, di razzismo, omofobia, odio, xenofobia, violenza fisica e psicologica, disprezzo della vita altrui, insomma di tutto quello che rientra nel catalogo del “non si pensa, non si dice, non si scrive”. Poi questi libri li fate avere a me e io li custodirò in casa (ovviamente mi dovete fornire una grande abitazione) come sacerdote guardiano, in una ala del palazzo conserverò le prime edizioni. Dovreste ovviamente eliminare anche tutte le citazioni di questi autori dal webbbb.
Alcuni dei vantaggi

1) Io mi potrei godere prime edizioni di Rimbaud, Pound e T. S. Eliot

2) Svanirebbero molti di questi programmini/pagine della frase del giorno che provocano confusione sociale: tipo burinazzi fatti e finiti che ti citano Ariosto Ludovico, Salvatore di Giacomo e Giovanni Papini. Resterebbero giusto buoni sentimenti e, spesso, autori adeguati ai burinazzi suddetti (che casualità!)

3) Riduzione drastica della marea di saggi copia e incolla scolastici.

4) Tanto spazio per nuovi poeti di merda, nuovi prosatori di merda, nuovi pensatori di merda, nuovi editorialisti di merda e poi vuoi mettere la facilità di scrivere quando hai a disposizione già l’elenco definitivo di temi e toni?

Cioran, lettere a Wolfgang Kraus

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Ieri sera, verso le dieci, sono uscito di casa; in piazza Saint-Sulpice la chiesa era illuminata. Sono entrato. Nessuno. Assolutamente vuota. Di solito, il giovedì santo la chiesa rimane aperta sino alle due di notte. Neppure un fedele. Ho pensato subito a lei, alle obiezioni di Etkind, che non sono le mie: egli è contro la religione per principio, anch’io lo sono, ma solo perché non possiede più forza vitale. Sono allo stesso tempo religioso e irreligioso. La cristianità è stanca, e io la odio a causa della sua stanchezza. La fede ha ancora una speranza? Nel mondo “libero” purtroppo no, salvo il caso di una dittatura atea su scala planetaria. Allora i suoi moniti e le sue speranze diventerebbero attuali e urgenti. Questa possibilità esiste.

E. Cioran (Lettera a Wolfgang Kraus, Venerdì Santo, 4 marzo  1980)

I mass media sono sicuramente una catastrofe per l’Occidente, ma la causa reale è più profonda e incurabile. Non c’è salvezza per una civilizzazione che non crede pù in se stessa. Posso azzardare una profezia? Tra cinquant’anni Notre Dame sarà una moschea.

E. Cioran (Lettera a Wolfgang Kraus, 11 gennaio 1987)

(AP)PARENTE SERPENTE ovvero Come ci ingannammo nel cogliere la mela perché era bacata ed il verme lo prendemmo per serpente, ma sarebbe bastato ascoltarlo parlare per capire che c’era poco sibilo e molta terra morta

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Massimiliano Parente è uno scrittore mediocre, mediocrissimo. Se uno elimina quelle tre fesserie da ultimo rimasuglio della pop art e il suo recente pornoliquame (non siamo contrari al porno, siamo contrari a Parente) sotto lo scandalo apParente resta cosa? Uno scrittore mediocrissimo in cerca di etichette. Verrà pubblicato quanto vorrà, non dubitiamo, perché è rapidamente digeribile e lo si espelle tutto, grassi compresi, manco si pigliasse una pilulina. Oggi ho letto la sua modesta proposta (non intendo alla Swift) sul sito Dagospia riguardo ad un “porno per tutti”, in particolare per la Lucarelli. Pareva di leggere quei compitini dei nonnetti che hanno scoperto LO internet. Ciacolava di filmetti amatoriali, succhiate di cazzo, ex girlfriends (così diceva), insomma di categorie da sito porno… il bello è che si sentiva come, in cuor suo, provasse la sensazione di essere ggggiova, up to date (ciapa!) e moderno. Appunto, un vecchietto che ha scoperto internet e non a caso l’ultimo brutto libro di Parente già dal titolo richiama alla memoria il nonnino che si traveste da Batman per fottersi la badante. Siamo ancora alla fellatio, dove Fel sta per Fellini e Latio per ‘a Lazio. Questa letterina ci ha donato però una cosa graziosa

Ma essendo il porno l’osceno, ossia ciò che è fuori dalla scena, ciò che non possiamo vedere, il punto sono le vip…

Scopriamo infatti che Parente ignora, infatti la perculata OSCENO da FUORI SCENA è un vecchio tormentone beniano, ma è anche una solenne castroneria, difficile da dire se Bene, spesso in vena di giochi di parole (e parole di giochi, sciocchina) fosse consapevole della falsità di tale etimo, resta il fatto che a Bene questo si concede perché c’è tutto il resto, ma il resto di Parente….

Anno Nuovo, Solfa Vecchia

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Corbetta, si distingue per valore a Custoza; Leopoldo Pullé, si distingue colle sue commedie sui teatri,
Raimondo Boucheron è autore di una insigne opera sulla Armonia, e tutti e tre sono fatti cavalieri della Corona d’Italia, i
due primi per aver appartenuto un anno al Comitato del Carnevalone, l’ultimo per esser socio di una certa academia: il
che vuol dire che in Italia quando si vuole dar premi a chi ne merita, si cerca almeno di non premiarne il merito.
‹Ricorda pur Verdi fatto senatore del Regno pel titolo di pagare 3000 lire d’imposte!!!›
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540. Un dott. Sella di Valle d’Andorno lasciò un patrimonio di circa 900.000 lire al suo paese, perchè se ne
impiegassero i frutti nella compera e nella distribuzione a gratis dei medicinali. Dal dì che il lascito fu publicato, tutti
sono ammalati, e tutti chiedono medicine. – Ci sono anzi ammalati che ne fanno traffico agli altri paesi – ai caffè dei
dintorni si beve del gran tamarindo; si è giunti perfino a unger le ruote dei carri coll’olio di ricino
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Buone finanze, buona politica. Volete conoscere lo stato di un paese? guardate le sue finanze. Le sole
condizioni finanziarie fanno le rivoluzioni. Oggidì (1870) in Italia non si vogliono economie, e si crede di cancellare il
deficit imponendo nuove tasse – rubando il pane del povero col tassare le lire 600 di reddito, mentre si lasciano le spese
di rappresentanza ai prefetti per far ballare gli aristocratici che possono ballare benissimo a casa loro. Ma il signor Sella
pensa di riempire i vuoti crescendo le tasse, senza riflettere che la forza di un paese dà fino a un certo segno, come,
nell’agricoltura, la fruttibilità di un terreno: e, in conclusione, facendo come chi chiudesse una fossa colla terra tolta da
un’altra.
C. Dossi, Note azzurre

LE VOCI DI EDUARDO – MADRID, MAGGIO 2014

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Lo ammetto: avevo bisogno di una scossa, uno stimolo, per tornare sopra questo spazio. A volte ci sono momenti di sovraccarico lavorativo e si finisce per lasciare da parte (ma non dimenticare) qualcosa che ci dona piacere. Lo stimolo è venuto dalla compagnia Servillo, a Madrid, in azione con uno dei testi che più ho amato di Eduardo: le Voci di dentro. 4 serate da tutto esaurito e, visto dal vero, si capisce il perché. Al di là certo del richiamo di poter vedere da vicino (molto da vicino, poi dirò) il protagonista di una pellicola premio oscar, è innegabile la grandezza come attore di Servillo e l’ottima riuscita dello sforzo collettivo. Non mi metterò a fare insensati paragoni tra Servillo attore ed Eduardo attore, sarebbe stupido prima di tutto perché, ahime, per ragioni anagrafiche non ho potuto vedere Eduardo in scena, inoltre si tratta certo di due attori piuttosto diversi e d’altro canto sarebbe ingiusto in generale fare paragoni perché Eduardo è Eduardo.

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Eduardo ci ha lasciato la sua versione in studio delle Voci di Dentro (una seconda versione, la prima purtroppo andò distrutta), testo duro, aspro, forse giustamente accusato di non essere del tutto completo, ma in grado di fornire numerosi spunti di riflessione e di una modernità o eternità propria di un classico. Si deve dire una cosa. Se si ha negli occhi e nelle orecchie la versione eduardiana quella della compagnia Servillo può scatenare una iniziale confusione, salvo poi, in un secondo tempo, spingere a riconoscere che, a conti fatti, non è snaturata in nulla l’opera di Eduardo e, anzi, forse è proprio Eduardo ad avere snaturato (nessuna connotazione negativa in questo termine) la sua opera in occasione della versione in studio. Se si osserva la registrazione e si analizzano anche gli accorgimenti visivi e coloristici voluti espressamente da Eduardo, si comprende come il grande drammaturgo avesse deciso di calcare la mano sull’aspetto allucinato e allucinante di questo intrico di sogni e realtà. Il colore è virato verso toni acidissimi e la stessa recitazione eduardiana tende a sottolineare, quasi sventrando a volte le parole o trasformandole in lame, la tragicità e l’orrore. Insomma il significato doveva prevalere strappandosi di dosso lo scheletro della commedia. A teatro domina invece l’ilarità, la parte buffonesca, la battuta fulminante e il contrappunto, ma non è per opera della compagnia Servillo, è per opera di Eduardo. Il testo di Eduardo è una commedia vera e propria, una commedia dove la risata (fosse anche amara) domina e sovrasta ogni altra cosa, in tutti e tre gli atti si ride e si ride forte, il pubblico madrileño, godendo anche della traduzione a schermo, ha espresso con fragorosissime risate il suo apprezzamento per gli inghippi e le stramberie dei componenti. Il messaggio passa, senza dubbio, una rianalisi a bocce ferme permette di cogliere quanto Eduardo esprime ed è tutt’altro che da ridere, un mondo di cani che si azzannano, la totale mancanza di fiducia all’interno della propria famiglia, l’orrore di un omicidio come quotidianità, ma il tutto avviene comunque non dimenticando la risata, veicolo principe, forse l’unico che allargando bocca, gola, cuore e aprendosi un varco attraverso le lacrime di contentezza arriva a “infettare” con il dubbio lo spettatore. Il sogno della serva, il discorso dei morti di Alberto Saporito, la scena dell’armadio, la successione di famigliari, perfino il discorso finale, non smettono di suscitare una giusta e filologicamente ineccepibile ilarità. L’Eduardo televisivo è monco del pubblico e, forse a compensare questo polmone assente, Eduardo caricò tutto a danni del superstite e fece virare come il colore così anche il tono. Le voci di dentro viste in teatro donano dunque il vero senso del testo, restituendo quanto perduto. E anche se Primo Levi colpì nel segno lamentando che il pubblico rideva troppo, non cogliendo il fondo amarissimo e inquietante, è pur vero che il materiale per suscitare ilarità c’è tutto e che il soffermarsi alla riflessione non può essere azione da compiersi mentre una azione si dipana davanti ai nostri occhi. Io stesso, fruitore compulsivo della versione eduardiana televisiva e lettore e rilettore del testo teatrale, percepivo che in alcuni istanti il pubblico pareva andare oltre (ma si badi che il mio parere era falsato a sua volta dalla conoscenza del testo e dunque dalla sedimentata consapevollezza della durezza di fondo) ma resta innegabile che il trionfo, trionfo di teatro vero, ripetuto anche con Servillo, era debitore proprio di questo divertimento innegabile.

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Sul palcoscenico l’opera è nuda, così come la scenografia essenziale eppure efficacissima (dalle immagini si potrebbe temere qualche “moderno” concettualismo, ma in realtà è proprio il focalizzarsi sull’essenziale) tanto nuda da mostrare anche i difetti: non dimentichiamo che fu opera di 7 giorni, scritta in fretta e furia per il venir meno alla compagnia di Eduardo di Titina, e il terzo atto, ritengo, rivela in teatro le sue debolezze. La conclusione occhieggiante al poliziesco, una certa incompiutezza della storia, la sensazione che i personaggi vengano levati irrisolti e per certi versi l’assurda virata dall’accusa violenta alla famiglia Cimmaruta, assassini della fiducia, ad un “ci vedremo poi e vi spiegherò”, sono le ferite che dimostrano come lo slancio si rivelò spento verso il terzo atto, eppure è una delle opere di Eduardo che preferisco, ed è grandiosa nel suo restituire un teatro divertente, perfino buffo, eppure profondo.

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Infine una piccola nota marginale. Dopo lo spettacolo ho avuto occasione di incontrare Servillo, di persona è assai cortese, quasi timido, piuttosto distante dalla immagine a volte restituita durante alcune interviste. Molto disponibile con il suo pubblico e aperto anche a discutere del “suo Eduardo”, anzi, direi incuriosito di toccare con mano l’effetto. Nessun divismo post-oscar, come ha avuto modo di dire in varie occasioni è il teatro a salvarlo, tenendolo con i piedi per terra. A partire dalla prossima stagione lo spettacolo dovrebbe tornare a Milano, Roma e Napoli. Vi consiglio caldamente di non perdere l’occasione di vederlo o rivederlo.