BALTIMORA

Come oramai è mia personale tradizione “mi faccio” gli auguri riripubblicando questa mia poesia dedicata al mio illustre “compagno di compleanno”.

A E. A. Poe

Donne perdute lungo la banchina del porto di Baltimora,

le ho viste l’anno scorso, come se fosse adesso,

e danzavano bianche e pallide come le vele al vento

ma non c’era vento attorno, se non nel mio occhio stanco,

lungo la linea tagliente dell’orizzonte ferivo la palpebra

calante come una luna tuffata sotto l’abisso del gorgo,

se non nella mano che tremava, tremava stringendo l’altra mano perché non tremasse,

la parabola dei ciechi lungo le colline la notte e il giorno,

seguivano in fila i gesti informi della voce, quei suoni inutili

richiamati dalla cortesia della palude della gente di biacca

che si stendeva lungo tutta la banchina del porto di Baltimora

illudendosi di risalire o discendere fino all’oceano,

acqua stagnante.

Tra le carcasse degli incerti nomi

un volto consunto dalla fatica

ma non piagato

dal quotidiano scappellarsi al passante

è come se si fosse murato nello spazio dell’oceano

lasciando la città e la gente dall’altra parte,

ed ora, troppo avanti negli anni per rincorrere le onde,

si accomodava come in veranda,

aperto un piccolo spazio nel suo muro, una porta,

trascinato un barile pressappoco della sua età

– chi sarebbe stato capace di distinguere di quale vino?-,

e guardava, senza dover dire nulla agli sperduti,

soffiando fumo come un battello a vapore,

avrei voluto che balzasse giù dal suo barile,

tagliasse tra la folla, spartendola bianca e schiumosa,

perché potessi seguirlo, seguirlo tra questa gente

ancorarmi a lui come se fossi fuori uso, in avaria,

ma non c’era nulla che potesse spostarlo dal suo pilastro

vecchio eremita nel silenzio

che ci osservava come da un lampadario su di un vasto salone

ma senza crudeltà, senza rabbia o livore,

ci osservava in attesa che la sua nave approdasse e gettasse la gomena.

Donne perdute lungo la banchina del porto di Baltimora,

oscillano come una bandiera soggetta al mutare del vento,

ora pendono a destra, ora a sinistra,

ed io le seguo con lo sguardo senza saper proferire parola

e negli occhi rivedo il riflesso dei loro denti

e negli occhi rivedo come l’inclinazione d’una scala lunga e nera

e mille suoni, in lingue che l’uomo e la donna non hanno mai inteso

davvero

e mille suoni, in lingue che l’uomo e la donna hanno creduto di capire

vanamente

e misteri nascosti dove nessuno li saprà mai trovare

nascosti nel luogo più impensato: davanti a loro, posti bene alla luce del sole.

Eppure bastava così poco, bastava sedersi su una sedia logora

e stringere una mano nella penombra, in attesa del medico,

passando così le ore, parlare e parlare ancora, dire, dire,

invece di correre follemente e picchiare i pugni sulle tempie imprecando

buttare fogli all’aria, sporcare d’inchiostro le mani, il foglio, la scrivania,

correggere bozze ad ogni ora, gareggiare a incastri

sostituire a numeri parole, a parole numeri, a disegni parole, a parole parole,

come un automa, ma di quelli veri, non le scatole per ingannare i gonzi,

ma quale automa avrebbe sofferto quello che ho sofferto e soffro ancora?

Quale automa? Un automa creato da qualche artefice crudele,

un automa che non sarebbe mai servito allo scopo,

sempre distratto da un suono, da un ritmo rivelatore

che veniva da ovunque, dalle pareti esterne e interne al corpo,

da dietro la maschera che si insinuava anche nel giorno di festa,

nel momento dei bagordi estremi, quando crolla ogni cosa

come una casa decrepita e priva di vita, come un mondo senza destino,

un corpo accasciato su una poltrona nel terrore che nulla si ripeterà:

quei sussurri notturni sotto il portone non verranno ridetti e non sono stati detti,

questi chiari di luna ellenici,

no, sarà una illusione futura, ma di chi?, non ho idea, ma sento che si illuderà,

e poi una luce la getterà un cieco scrutando nel buio i sentieri indivisi,

ed io ora scopro che il bivio è una curva di un labirinto

e la via dalla quale si viene non è una via, ma un punto proiettato nello spazio,

un punto posto lungo quella curva che vediamo d’un tratto,

ma di tutto questo non farò menzione, non scriverò nulla, non lascerò traccia

troppo, troppo ho già messo sulla carta in questi anni di vagabondaggio,

in questi secoli di cammino lungo la riva del risonante mare,

voglio solo spingermi di nuovo là, in questa notte di ottobre,

anche se le gambe sono malferme, lo stomaco non regge

e la testa risuona ad ogni leggero movimento del mio corpo,

ma voglio tornare là, in questa notte d’ottobre

a vedere donne perdute lungo la banchina del porto di Baltimora,

forse tra loro, tra questi spettri della notte

che danzano a piedi nudi sulle acque

troverò anche il suo volto

pallido e disciolto

quel volto che vedevo reggersi debole come il suo sorriso

quando mi osservava dalla porta

quando lasciava, contro al mio volere, il letto per vedermi lavorare,

e restava in silenzio, mentre non potevo proferire una sola sillaba,

forse lo vedrò quel volto

forse la vedrò come se emergesse dalle acque del porto

con gli occhi chiusi e la bocca rasserenata

lontano dagli affanni e dagli artifici del laudano,

come se emergesse da una terra lontana, un’ isola,

da un regno in riva al mare.

LE LIETE ADUNATE

   Vorrei talvolta ridurmi al lumicino, perdere per completo l’uso della voce, l’uso del suono, produrre giusto qualche inarticolato brusio, zio Nico’, eliminare ogni possibilità di contatto, e perdere anche l’udito, perché troppo si soffre con l’udito, ma poi c’è la musica ed il canto e allora cancello tutto; vorrei poter parlare solo in versi sonori, cantare, ogni parola fosse legata a note, ogni mio gesto prevedesse musica e così il mondo attorno, vorrei vivere in un’opera meravigliosa, dove le scene di massa, i cori, avessero un senso ed uno scopo, invece della democraticità dei ciucci al brucolìo, questo brucolìo, zio Nico’, questo brucolìo a cosa serve? Questo ciancico a bocca storta? Io non mi capacito, non riesco a trovarci un senso. Sempre più vorrei perdere ogni contatto con Loro, cosa sono? Da dove vengono? Quale morbo li ha trasmutati a tal punto che non riconoscono, neppure nei volti dei loro fratelli appestati, i segni inequivocabili della lebbra.
Basta una riunione, ci capiti per sbaglio, ci vai perché ci devi andare, l’accordo sonnolento delle menti sulla costituzione del buon cittadino, ed è finita. Che paura, mamma mia, se rinasco un’altra volta non voglio rinascere uomo, oppure voglio rinascere come sono ma in terra tanto lontana da non capire neppure una parola, all’infinito, il linguaggio, il discorso. Non mandateli a studiare i vostri figli, che non apprendano la lingua, che vivano sereni senza intendere… eh già, ma poi arriverebbero comunque i segni, le smorfie, le teste inclinate, le dita, alla fine sarebbero punto e a capo, perché l’uomo se vuole parlare a vanvera pure col silenzio ci riesce.

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Norman Rockwell, Freedom from Fear, Oil on Canvas 1943

I fascisti, dicevano, i fascisti, imprimendo a quel “sc” un giro da turbine quasi ad intendere l’ultima catastrofe e poi la resurrezione, ma dove mai siamo risorti dai fascisti, zio Nico’? Vai 5 minuti… eh già, tu non sei fesso, tu da dove sei non ti muovi… ipotizza di andare cinque minuti a qualche manifestazione ufficiale, bandiere, banderuole, fascie del sindaco e delle autorità (e con le fascie non sono fascisti dunque?) bande musicali, gagliardetti, stendardi, a volte perfino i bimbi trascinati  a prendere freddo e retorica in piazza, a pigliarsi una influenza micidiale, perché si abituino al non vivere e al discutere senza senso, al parlà a schiovere, che fin da piccini assumano il pensamento che tanto vale mettere bocca e voce sopra ogni cosa, anche se è affare che non ti importa o che non sai, perché se non parli “non sei cittadino”, ti dicono strizzando l’occhietto… e alla fine cosa ottieni di tutto questo borbottare, di tutto questo fagiolare nell’acqua zozza della società? Che loro, i fascisti dalla fascia colorata, comandano, tu il cittadino che hai appreso a blaterare subisci e semmai, durante qualche minimo assestamento, forse puoi pure beccare una fascia pure tu, la tessera del partito, intanto fai numero e fai comodo per la fiera campionaria delle vacche da voto. C’è gente che ha paura dei morti, gli fanno strizzare le budella, se li immagino che la notte vengono a commettere omicidi, si immaginano perfino che alcuni che sono morti non sono morti veramente e vagano, senza ricordi, per mangiarsi a voi e a me, zio Nico’, e tutti gli altri, ma si può essere così asini? I vivi fanno paura, i vivi, ed i vivi sono più morti dei morti, basta vederli in riunione, silenti e incapaci di critica, di valutare il ridicolo della funzione che trascorre davanti a loro, questi fanno paura e vi dirò perché sono già morti… anzi, no, ve lo dirò una prossima volta, adesso voglio dormire, ma un sonno senza parole.