IL PESCE ROSSO: ACQUA IN BOCCA E POCA MEMORIA ovvero LA MORTE, QUESTA SERIA FREGATURA

Nel 1935 Eduardo scrisse una commedia dal titolo “Uno coi capelli bianchi”. Si tratta di un testo meno noto nella produzione eduardiana, ma non per questo da trascurare, anzi, recenti fatti trovano giusta sintesi e risposta in questi tre atti. Per chi volesse leggerla la troverà nella Cantata dei giorni Pari. L’azione è tutta creata da Giambattista Grossi, un ricco e oramai canuto industriale che si diletta nell’arte di piantare pugnalate nella schiena a parenti ed amici. Con sadismo il principale spasso di Giambattista è fare il voltagabbana, qualsiasi segreto o confidenza viene immancabilmente spifferato, è un continuo rimestare nel torbido per creare scandali e crisi, senza dimenticare, ovviamente, la necessità di continuare ad alimentare la propria vanità personale: Giambattista ama attribuirsi, perfino simulando modestia, tutte le ottime azioni finanziarie intraprese dal genero, suo successore di fatto nella conduzione della azienda, salvo ovviamente declinare ogni responsabilità quando gli affari vanno male. Da intrigante nel piccino (il nucleo famigliare e una cerchia comunque ristretta di conoscenti) è conscio di poter essere scoperto con una discreta facilità, ma ha un’arma infallibile: il suo onore e la sua età. L’età soprattutto, i capelli bianchi, sono la garanzia e il pugnale nascosto, la sica buona da tirare fuori ad ogni istante. Ogni predicozzo morale, ogni fanfaronata, è ammantata dalla aurea di saggezza che, stupidamente, l’uomo attribuisce a priori all’età, quasi che l’invecchiare fosse per forza sinonimo di una maturazione o di un miglioramento, una sorta di miraggio delle “magnifiche sorti progressive” trasferito nell’ambito della biologia. Ogni merito altrui verrà riconosciuto solo per sottolineare poi che non è ancora giunto il momento per cogliere davvero ogni frutto e che ne dovrà ancora vedere, il povero pischello, di cose, perché

Quando ci arriverai pure tu, capirai come e perché si deve camminare sul taglio di un coltello

Ho l’esperienza…. n’aggio visto che n’aggio visto

Giambattista è un mediocre, non ha alcuna dote tranne quella di combinare disastri e inguaiare gli altri, dalla commedia si intuisce che come imprenditore dovette dimostrarsi una nullità, dovette galleggiare a forza d’aiuti altrui fino a questa fantomatica vecchiaia da rispettare e incensare. Il Grande Vecchio della imprenditoria locale, consultato e ascoltato, pronto ad aprire bocca ad ogni istante per rifilare baggianate, non ha nei fatti mai dimostrato nessuna caratteristica che lo possa rendere onorabile, finta saggezza, simulata esperienza, per il resto solo voglia di fare sconquassi e rovinare famiglie. Giuliano, il genero esasperato e rovinato dallo strisciante atteggiamento di Giambattista, offre una corretta sintesi del problema

Caro Commendatore, sarebbe ora di finirla col fatto dei giovani e dei vecchi. A parte il fatto che qualunque cosa fai “Sì, è grazioso; ma io tengo un’altra esperienza… Nella mia vita ho visto ben altro” E vuie agliuttite, agliuttite…, a parte questo, ci sono dei casi singolari. Ce sta ‘oviecchio ca nun è viecchio e nun è giovane, che al suo attivo tiene solamente gli anni… E come se li fa valere! Con l’esasperarti, sapendo che ti esaspera; col deridere la tua giovnezza, avendo l’aria di farte una colpa; e te stuzzica, te pogne; e tu zitto, perché lo devi considerare: è viecchio! Tiene ‘e capille ianche! Ma ch’e ttena a ffa’? Questo tizio profana i capelli bianchi; è un trucco, credete a me. A questo tizio l’ha truccato ‘o Pateterno

E delle molte stagioni che rimane, dunque? Rimane la mediocrità di un galleggiante, di una boa che sopravvive alla sua mancanza di capacità appigliandosi a barche e navi e tronchi, salvo poi lasciarle ogni volta all’arrivo di altro o quando il legno s’infracica, allora questo Grande Vecchio (solo l’età e il capello bianco gli fornisce quel Grande, non certo una virtù) cambia di supporto e disprezza il precedente, ma resta uno che galleggia e galleggia e non si leverà più dalla testa il suo stato di pezzetto alla deriva. Giambattista non esprime idee politiche, in un’opera messa in scena ancora in piena guerra (1942) certo Eduardo doveva tenersi alla larga da riferimenti troppo marcati, ma possiamo immaginare la vita di questo Grossi nel corso di una comune esistenza. Fosse nato nei primi decenni del secolo scorso Grossi avrebbe iniziato a galleggiare tra i fasci, sarebbe stato una penna del Guf, avrebbe firmato qualsiasi manifesto gli fosse capitato davanti, si sarebbe riempito di fervore per il Duce, qualche articolo sulla guerra, mercanteggiamenti di basso corso, navigazioni a vista. Il nostro Grossi sarebbe rimasto ben a cavalcioni del Re Travicello, aprendosi strada verso rosei futuri da scrittore e giornalista. Non si sarebbe fatto mancare nulla, mantenendo il vizio allo spiffero e alla telefonata che inguaia, avrebbe certo approfittato, diciamo così per fantasia, della occasione di mostrarsi provetto fedelissimo: se fosse capitato sopra un treno e avesse origliato una conversazione “disfattista” avrebbe certo denunciato immantinente il colpevole facendolo incarcerare e poi mandare al confino. Nello stesso anno il nostro Grossi, il nostro G. ancora dai capelli scuri, si sarebbe svegliato partigiano, vedendo il Travicello affondato l’otto settembre e avrebbe fatto il salto ad una barca più giovane e con  commissure più affidabili. Dal nuovo vascello si sarebbe divertito a guardare fare acqua l’altra e poi affondare, le avrebbe tirato pietre e a quelli rimasti sul legno oramai destinato al tracollo, avrebbe pure sparato, così, tanto per evitare testimoni. Il nostro G., dal cuore tanto grande da non potersi mantenere sulla stessa barca infinitamente, avrebbe poi iniziato a zampettare di barca in barca, sempre disprezzando le altrui e guardando alla costa avrebbe magari riempito di improperi questo o quel popolo, usando una dialettica appresa in gioventù. Non so, tanto per fare un esempio, avrebbe potuto dare dei cimiciosi o della umanità disprezzabile e repellente agli abitanti di qualche città, perfino della sua natia Napoli (sua di Giambattista, ma penso che il nostro G. sarebbe potuto nascere pure altrove, la latitudine non cambia il fatto, magari nelle zone di Cuneo, così per far capire come ovunque sarebbe potuto nascere). Andiamo ancor più di fantasia, il nostro G. avrebbe potuto scrivere cose così

“Insomma, la gente del Sud è orrenda (…). C’era questo contrasto incredibile fra alcune cose meravigliose e un’umanità spesso repellente. Una volta, a Palermo, c’era una puzza di marcio, con gente mostruosa che usciva dalle catapecchie. Vai a Napoli ed è un cimiciaio, ancora adesso. Una poesia il il modo di vivere di quelle parti? Per me è il terrore, è il cancro. Sono zone urbane marce, inguaribili”.
Unica consolazione: il Sud fa talmente schifo che se vai lì ne cavi di sicuro qualche bell’articolo. l’intervistatrice si illude e risponde:: “Quindi sei grato, se non altro…”. “Grato, insomma… Come dire: sono grato perché vado a caccia grossa di belve. Insomma, non sei grato alle belve, fai la caccia grossa, ma non è che fraternizzi con le belve”. Eppure, nei suoi libri, qualche parola consolante sul Meridione si trova: “È necessaria un po’ di ipocrisia. Sapevo sempre che dovevo tener buoni i miei lettori meridionali, quindi davo un contentino”.

Oramai saldo sulla nave Repubblica, pur zampettando ancora a destra e a manca, esaltando questo per poi denigrarlo, esaltando quello per poi sputargli sopra. Il nostro G. sarebbe approdato ai capelli bianchi, alla vecchiaia estrema, e allora il suo essere un misantropo sarebbe stato rigirato come “burbera saggezza di chi ha visto tanto e sofferto”, il suo moralismo di bassissima lega sarebbe stato accolto come la parola del savio che ha molto vissuto e visto, le folle dalla memoria cortissima, come quella del pesce rosso secondo una falsa storiella, ora perché giovani, ora perché disinteressate, ora perché opportuniste come lui, ora perché rincoglionite, avrebbero accolto le parole del Grande Vecchio, oramai incensato e divinizzato solo perché ha galleggiato sui cadaveri degli altri, e comprato ogni cosa che avesse rifilato (magari poi non leggendola perché, diciamolo pure, il nostro G. sarebbe stato pure in questo di una povertà di mezzi allucinante) alle stampe. In salotti dove l’umanità più varia e avariata passa e ripassa, in fronte a gente che è arrivista nel suo piccolo (la giovane età, i pochi disastri) si sarebbe dilettato nell’inscenare il teatrino del saggio disceso dalla montagna ad ammaestrare i poveri di spirito, applausi impacchettati, commozione, emozione, tutto offerto allo stesso prezzo. Un giorno poi G. sarebbe crepato, come si crepa sempre prima o poi, magari sarebbe pure crepato in un giorno particolare, tanto per scassare le palle pure in questo, in un giorno nel quale magari son morti altri che hanno lasciato assai migliori ricordi e, certamente, qualcosa di concreto, il segno intangibile di una loro distinzione. Una volta crepato l’apoteosi, la memoria corta ancora più corta, il teatrino ripulito a nuovo. Certo il nostro G. sarebbe stato esaltato per ogni dove, onori da parte di quello Stato che lo ha foraggiato, onori da parte delle autorità, onori da parte del popolo inetto e immemore, il Grande Vecchio, sollevato sopra un catafalco, circondato di fiori, sarebbe stato accompagnato verso un fittizio paradiso dei grandi, magari pure un Famedio l’avrebbe atteso a imperitura memoria di come morire sia una fregatura perché vi si trovano confusi i mediocri voltagabbana con gli onesti, perché nei luoghi dove non si coltiva il gusto per ricordare i fatti come avvennero, anche un uomo privo di qualità (ma non di vizi) riesce a raggiungere lo stato di Magno solo perché è campato, solo per la strana idea che la morte debba cancellare ogni macchia, tanto più che nel caso, ad essere rigorosi, dovrebbe cancellarlo tutto il nostro G. perché di tutte macchie era composto. E a chi invoca le pietà e il beneficio del dubbio, diciamo (o diremmo) che non riusciamo a dare benefici del dubbio a chi di dubbi nel saltare, sputare e pure far ammazzare non ne ebbe, che i benefici non si danno a chi in una lunga vita ha avuto tutto il tempo per dimostrarsi sviluppato oltre la fase di ameba ed è rimasto, felicemente e pinguemente, a quello stato di omuncolo, la morte non dona benefici e non deve donare onore e rispetto (salvo al corpo e ai famigliari)  e volete sapere il perché? Perché la morte è seria, non è uno trucco come ‘e capille ianche.

IL RITIRO DI GUSTAV LEONHARDT

Questo 12 dicembre Gustav Leonhardt ha tenuto il suo concerto di addio al Théâtre des Bouffes du Nord a Parigi. A 83 anni il grandissimo clavicembalista e direttore d’orchestra, uno dei veri padri della esecuzione filologica della musica barocca, si è ritirato per problemi di salute, cancellando gli impegni previsti nel 2012. La notizia non può che rattristare, a poco tempo di distanza dalla improvvisa scomparsa della Figueras, Leonhardt cessa l’attività tanto lunga e prolifica, iniziata  più di 60 anni fa e costellata da una produzione discografica solida e rigorosa. Rigorosa, sì, perché Leonhardt molto più che il suo blasonato (nel senso nobiliare) collega Harnoncourt,

è stato ferreo e disciplinato nella scelta del repertorio musicale, granitico e solido nella prassi esecutiva, perfino a volte rasentando, mi si permetta, l’eccesso di zelo religioso. Il Bach di Leonhardt è molto più protestante forse di quanto fosse Bach stesso ed è una strana sintesi tra l’innovazione del recupero (la prassi filologica, il clavicembalo da ferroso e gracchiante a restituto, le accordature un po’ balzane prima e poi autentiche, i stonanti fiati senza pistoni, i pistoni e poi l’acquisizione della tecnica antica) e il romanticismo della Teologia in musica, dove ogni nota, ogni fuga, ogni contrappunto celavano, nelle svariate e voluminose interpretazioni accademiche, lo svelamento, l’epifania di un qualche passo, la meditazione, bibbia per popoli elettissimi, quasi da contare sulle dita delle mani.

Il Bach di Leonhardt (certo potremmo parlare anche di molti altri autori coltivati, diffusi e amati dal musicista, ma è forse il più esemplificativo) è il Kappelmeister dallo sguardo arcigno, quello che rifilava sganassoni agli alunni e ancora li rifilerebbe in barba a ogni lieve pedagogia, non è il Bach delle cantate profane (pur così bene incise) non è il Bach delle riunioni famigliari rallegrate dalle bottiglie che si disponevano come santi in processione, non è il Bach dell’erotismo premozartiano o del balletto amoroso con Anna Magdalene. Anche quando interpreta questo Bach Leonhardt è l’altro Bach, la chiave di volta del luteranesimo, o meglio, la chiave di violino. Dritto come un rigo, solerte e preciso. L’unica volta che ebbi occasione di vederlo dal vero era così, camminava sotto un chiostro, prima del concerto, ed era come se si compenetrasse con ogni singolo particolare di quel luogo, passargli accanto dava l’idea di non essere comunque nello stesso luogo dove si trovava il musicista, lui e l’edificio erano altrove.

Non osai accostarmi come non avrei penso osato avvicinarmi a Bach, almeno quello teologico, il San Tommaso armato di clavicembalo e organo, ma mi limitai ad osservarlo, non troppo indiscretamente spero, mentre passeggiava con estrema calma. Poi musica tedesca e francese del ‘600 e infine, solo in un bis strappato a fatica, Bach, un preludio del Temperato, quello che certamente per lui era, secondo una immagine che mi affascina pur se non saprò mai esserne certo, una trasfigurazione della ascesa al Calvario. Detto questo c’è dunque da stupirsi che proprio un giovane Leonhardt sia stato scelto per impersonare Bach in un curioso filmato di molti anni or sono?

CON QUESTI PENSIERI

Albrecht Durer, Erasmo da Rotterdam

Con questi pensieri

che si strappano inviolabili

come un argenteo filo

trapuntando i margini

delle mie docili membra

e carni e carni ora legano ora sventrano

tendendo come teli il sottile velo della pelle

fino a sfigurarne l’animo

mutandone il colore

dal roseo al bianco

come all’enfiarsi d’una vescica rubiconda

giocherò nel chiostro delle mie dita

alla infame mattanza degli ultimi nati

trasfigurando in diverse pietre i volti ed i mondi

tanti quanti i colori.

Giocherò sul prato della mia pelle

alla docile passione dei venti e dei soffi

degeneri come il salice.

FANTASMI AL TERMINE DELLA NOTTE A MEUDON

Piuttosto noto è il fatto che Louis-Ferdinand Céline trovò rifugio, alla fine delle peripezie inziate negli anni finali della seconda guerra mondiale, a Meudon, assieme alla moglie Lili. In una casa dall’aspetto dignitoso ma in realtà in uno stato assai fatiscente,  Destouches si divideva tra la sua attività di medico e la scrittura, scrivendo in pochi anni Normance e la trilogia tedesca (conclusa giusto poco prima della morte). La casa esiste ancora oggi, nonostante le devastazioni edilizie e un incendio (casuale ?) . Di questo rifugio abbiamo notizie ed immagini, per non parlare di una intervista per la televisione (mai trasmessa ovviamente) dove Céline mostra il suo tavolo da lavoro e il nutrito gruppo di cani che gli facevano compagnia assieme al pappagallo Toto.

Decisamente meno risaputo è che, a una distanza non grande dal luogo dove abitava Céline, al numero 25 della Route de Gardes, troviamo, al nr. 27 della avenue de Chateau, questa abitazioneSi tratta del rifugio (temporaneo) di un altro titano. Richard Wagner che, assieme alla moglie Minna, visse dal 1841 al 1842 in questa casa, durante il suo soggiorno in Francia. Proprio in questo luogo portò a compimento il Vascello Fantasma, considerata a buon diritto l’opera dove Wagner ottenne finalmente di conquistare “la sua musica”, portandola definitivamente ad un punto di non ritorno. Come per Céline, anche la vita di Wagner, vita da vagabondo in cerca di una affermazione che svaniva tanto più rapidamente quanto più era parsa vicina, fu tutt’altro che generosa nel periodo di Meudon. Wagner dovette tirare avanti a forza di riduzioni per pianoforte, piccoli manuali e articoli vari, mentre le sue composizioni venivano ora rifiutate ora accettate, magari con grande esito di pubblico, ma con scarsissimo esito economico, tanto da provare l’odiosa esperienza del carcere per debiti.