Ma dove credeva di andare Moresco?

Non abbiamo capito dove pensasse di andare Moresco. Davvero. Il suo articolo sulle pagine di Repubblica è una sorta di mea culpa che alla fine vuole essere un vestra culpa (editori, giudici, magari un po’ lettori) a fronte di una apertura estera (?)

Eppure, certo per mia inguaribile ingenuità, a 68 anni e dopo avere scritto tanti libri e dopo quello che sta iniziando a succedermi all’estero…

…Nella mia vita ho fatto ampiamente esperienza di questo rigetto da parte della società della cosmesi culturale

Continuo a non capire. I premi sono premi e ogni premio ha un funzionamento abbastanza visibile (e risibile). Sia la sagra di paese per il Suino più rigoglioso o il premio Croce Rossa BimbiMinkia i meccanismi di base non cambiano: un comitato, signore bene che si annoiano, ciao Cicci ciao Ciccio, quanto tempo, tartine, strette di mano, ti presento il mio “amico”, vieni a trovarmi a “casa mia”, ti saluta Pippolo, ti sfancula Mammolo. Borges parlando del premio grosso, quello con la N., aveva avuto modo di ricordare l’assurdo meccanismo geografico, assieme a questo vi è pure un meccanismo geo-politico.

Continua a leggere

Dark Star (John Carpenter e Dan O’Bannon, 1974)

youngjohncarpenter-blog.jpg

Nel 1974 John Carpenter era un giovane regista non ancora noto al grande pubblico (ma già messosi in luce come co-autore del soggetto del cortometraggio The Resurrection of Broncho Bill, premio Oscar per la sceneggiatura 1970) e sarebbe rimasto così per alcuni anni fino al successo di Halloween (1978). Assieme ad un suo compagno di Università, Dan O’Bannon, decise di realizzare un film che avevano scritto quando erano ancora studenti. Si trattava di un soggetto di fantascienza, a carattere comico, con evidenti richiami sia al Kubrick di 2001 che a quello di Strangelove. Nacque così Dark Star.

220px-DarkStarposter

Dark-Star-600x865

tumblr_njbwfhXOEW1r6ivyno1_1280Con un budget di 60.000 dollari Dark Star rappresenta il primo vero film professionale di Carpenter, pur essendo in origine un saggio girato in 16 millimetri e poi portato a 35 millimetri con aggiunta di scene e cambiamenti nella sceneggiatura. Carpenter a tal proposito non si è mai detto molto soddisfatto del risultato perché riteneva che si trattasse di un ottimo saggio studentesco mutato in un cattivo film.

dan-and-john(continua a leggere)

Continua a leggere

Lo spirito italico: da una misteriosa battuta a Mr. Obamaaaaaaaaaaaa

Trovo casualmente questa gif animata

tumblr_o2kyv2bEmY1qzfez5o1_250

Incuriosito cerco di capire cosa sia esattamente successo. Hitler trattiene a stento la risata, Ciano sorride, Goebbels e Himmler scoppiano fragorosamente, Hess mostra una ilarità piuttosto evidente. Vittorio Emanuele si gira con l’aria di chi non abbia apprezzato la caciara.

Poi trovo questa foto che è evidentemente della stessa giornata, stesso luogo, manca giusto Himmler che deve essersi spostato

tumblr_inline_o2kys7zyOm1qzdqsm_540

E allora tutto si spiega. Evidentemente Mussolini ha raccontanto una storiella, una barzelletta, un motto di spirito, probabilmente in tedesco. Il risultato è stato quello che vediamo ovvero un Vittorio Emanuele arcigno (sapeva il tedesco?) già scocciato sia dalle beghe precedenti alla visita di Hitler, sia per differenti concezioni (ed epoche) di cerimoniali ed etichette.

Così mi è venuto in mente il celebre Mr. Obamaaaaaaaa con richiamo a Berlusconi da parte di Elisabetta d’Inghilterra.  Senza volere fare paralleli politici (li troverei stupidi) certo si deve dire che un certo “spirito italico” si conserva intatto, con la differenza che almeno nel caso più antico si trattava di padroni di casa che intrattenevano ospiti, nell’altro si trattava di ospiti che facevano caciara attirando l’attenzione di altri ospiti, suscitando la contrarietà dell’unica padrona di casa.

tumblr_inline_o2kyua4vN61qzdqsm_540

 

E dopo Papa Leone Magno

papa Francesco Magna

MagnaA margine. Verissimo che il segnalare l’ipocrisia delle gerarchie ecclesiastiche è oramai come impallinare la croce (sic) rossa, ma non possiamo dimenticare le prediche del presente pontefice sul consumare meno cibo (a proposito della fame nel mondo), né il vademecum per i preti dove esortava alla morigeratezza anche in ambito alimentare. La silhouette pontificia lo addita a ipocrita quanto le sue parole.

pope-francis

Frammento de “lo strano caso dell’ispettore Boldrini”

…a differenza di altri celebri personaggi dei noir l’ispettore Boldrini discrimina sul sesso della vittima: non accetta mai casi relativi a uomini. Questo però non dipende da un suo pregiudizio, ma solo dalla tecnica investigativa, raffinata in anni e anni di studi. L’ispettore Boldrini è in grado di stabilire aspetto, attività, desideri e le modalità del crimine semplicemente odorando le mutandine della vittima. Il capo della polizia, inizialmente incredulo, ha dovuto negli anni ricredersi davanti alle prove evidenti della validità del metodo dell’ispettore, in particolare durante il caso del bizzocco travestito, quando, armato delle sole mutandine della moglie del capo della polizia, Boldrini descrisse nei minimi dettagli i tratti salienti dell’esistenza della signora Luisa, dalla nascita ad oggi. Da allora nessuno si oppone alle scelte dell’ispettore e non si è più tentato di rifilargli casi che riguardassero vittime di sesso maschile. Un momento di crisi fu quello del caso della neomultimilionaria americana, sospettata di aver assassinato il marito petroliere, perché questa non portava mai biancheria intima, ma dopo diverse settimane di dubbio Boldrini trovò la soluzione e, grazie ad un mandato speciale del magistrato inquirente, potè obbligare l’americana a lasciarsi annusare le parti intime mentre un segretario annotava, parola per parola, le deduzioni dell’ispettore Boldrini…

RIPROPOSIZIONI – PRIGIONIERI, CORNUTI E ORINALI ovvero MORII D’ARTE O VISSI DI POLITICA E COMMERCIO?

Una volta invitarono Riccardo Tommasi Ferroni alla Biennale, apriti cielo, Satana nel mezzo di San Pietro (ovviamente la nostra stima in tale occasione andava tutta al satiriaco Satana). Chiocciolando, piano piano, la criticaglia del non prosit non esponi, ovvero non frequenti il circolo buono tutto brindisi e baccalà non esponi, stava forse ridestandosi dai torpori astrascisti che ammorbavano l’aria? Si iniziava forse a capire che due righe in croce (atea per carità) viste una volta, viste cento, viste duemila volte facevano scivolare il latte alle ginocchia e che senza uno straccio di tecnica si è poco più che scimmiette con la macchina da scrivere? La pietra rotonda come certe tavole soporifere e certi cachet analgesici, dentro i soldi via il dolore, forse si era davvero scostata e con un frustone degno del tempio delle migliori occasioni si iniziava a sbattere fuori i mercanti? Macché. Cippirimerlo. Tommasi Ferroni si accorse che gli era stato destinato l’angolino più infimo, praticamente al posto dell’orinale: dove Duchamp aveva strappato ecco che prentendevano che il buon Ferroni appendesse. Risultato. Acculando, con i ferri del mestiere (lui che l’aveva solido), se ne andò strabattendosi della malpensata del criticume nostrano. Tommasi Ferroni non penso si fosse fatto troppe illusioni.


Uno come lui era come un Annigoni (certo questo secondo il più grande), era un appestato, un reietto della società. Vendeva, non c’è dubbio, grazie a qualche buona conoscenza, intenditori, una certa rinomanza all’estero perché il mondo non sarà piatto ma è largo, ma altrimenti la fame. Essere figurativi e figurativi con tecnica. Roba da finire in quel museo dell’Entartete Kunst che è il padiglione salottiero del museo di Stato e della Arte moderna. I nazisti si limitavano alla Germania? Kein Problem, noi li si supera, ti sbattiamo fuori dalla mostralalia che conta (torniamo al cachet) e ti spediamo libero per il mondo a farti sputare in faccia, se non hai la fortuna di scovare il telegrafo senza fili degli appassionati.

Se vuoi esporre da noi finisce nell’angolo del pisciatoio, senza pisciatoio, così il turista magari userà la tela per quello che riteniamo si meriti, il turista da biennale intendo che con ditino alzato e la bocca piena di MOMA invece di farsi una cultura si è fatto una collezione di stime immobiliari. Dire che però i figurativi siano tutti reieitti è crudeltà e falsità. Parliamo dell’Italia, se aprissimo al mondo avremmo Dalì, ma appunto perché il mondo era largo e Gala assai chioccia, ma restiamo nel microcosmo dal microclima appestato. Figurativi con tecnica fatta e finita finivano dove finivano, una palata di calce e via, magari brillavano brevemente ma presto venivano accusati di tecnicismo (Mozart non venne accusato di troppe note?). Ogni tanto potevano mettere una mano fuori, vendere, sopravvivere, ma certo mancava loro il gesto, quel marchiettino riproducibile in tirature illimitate e che oggi si spaccia per stile. Essere un macchiante o uno scucente (tele e palanche) garantisce l’immortalità, tant’è che dopo la morte il pittore riuscirà a sommergere il mercato con nuovi quadri retrodatati (e se non è immortalità questa), essere un artefice che crea qualcosa di unico condanna alla fine o a pessime e riconoscibilissime imitazioni, si guadagna una immortalità che può essere colta solo da menti che vadano oltre il circolo commerciale. Ma vi sono comunque figurativi sghembi nel mezzo che hanno fatto fortuna. Gran godimento economico-commerciale-santinbanchista ha dato il Guttuso nazionale. Compagno strapagato, multimiliardario dalla pennellata whiskyana e dalla parlata sociale quanto vacua. Ricordo ancora l’episodio della Rai, “Come nasce un’opera d’arte”, Annigoni, borbottando, passava il resto della trasmissione a lavorare duramente, correggere, praticamente muto,

Guttuso no, due peperoni che erano tanto marci da puzzare perfino sulla tela ed intanto una sequela di discorsi sugli operai, il popolo, le masse, i diritti, tutto pucciato nel liquorino che teneva in una mano (questi pittori ah… per rubare le parole a Dalì  questi  cornuti dell’arte moderna).


Ma Guttuso aveva il gesto, ovvero quel bambocciante disegno incerto e quella mediocrissima pennelata da ringhiera che consente di riprodurlo all’infinito, come stampare bigliettoni, hanno valore giusto perché si dice, non per qualche virtù evidente. La fortuna di questa stella, oggi un po’ appannata, veniva prima di tutto dal partito, Guttuso dava tutto al partito (a parole), in cambio si teneva i miliardi e scarrozzava la grigiapigia Marzotto. Non aveva neppure il senso di creare la scena, niente da fare, il buon De Chirico, forse non una cima ma onesto e un capace bockliniano, non gli si poteva accostare neppure con l’occhio traverso. Lasciamo gli altri detti prima perché erano oltre le capacità visive del nostro. Lui credeva nella ideologia o almeno diceva di credere che poi alla fine è la stessa cosa, l’ideologia è parola sopra parola, sia vera o falsa a pochi interessa. Spesso sono incroci tra consanguinei le ideologie, non a caso sono butterate e piene di deformità.
Ma Guttuso è di lungo corso,  nato a Bagheria nel 1911, annotavano alcuni scritici che non cadde nella trappola dell’impegno politico sotto il fascismo, lui che era così focoso e sanguigno (almeno così amava ritrarsi e farsi ritrarre dalle bande di salive a perdere), pur nella piena gioventù sotto le grida fasciste non vi aderì, così dice la agiografia dai bracci tozzi ed i testoni misteriosamente massicci. In realtà non è vero, l’adesione più o meno a certo culturame di striscio (e striscia) fascista è attestata pure per Guttuso, ma certo non fu tra i più esagitati o tra i più visibili, non scrisse con accenti mussoliniani, non fece lo spione per mandare al confino altri, insomma si tenne entro un limite prebocchiano e comunque, avesse anche aderito, non sarebbe detrimento o fattore di esaltazione di quello che dipingeva (Wildt, vietatissimo scultore, resta uno dei più stupefacenti geni del ‘900, peccato che molte cose le abbiano distrutte).

Poi la stagione successiva alla guerra, il Guttuso impegnato, il ditino alzato, il liquore, i peperoni, le scene di massa, la gioventù un po’ ritardata ma, dice lui, sentita e forte. Eppure gratta e gratta uno, c’è poco da fare, per tendenza del noioso umano racconto si forma e sforma in gioventù, i 16-20 anni, qualche libercolo occhieggiato, mezza parete annusata, due o tre galere statali e via nella formazione –non particolarmente innovativa-. Vi sono casi di formazioni posticipate, ma quelle solitamente fanno pensare a macerazioni e a riflessioni tanto profonde che poco potranno spartire con il quotidiano. Dica quel che vuole ogni critico Guttuso venne fuori come una zucca in pieno fascismo e di pieno fascismo succiò le retoriche popolari, le scene d’insieme, i musi, le manate e i corpiccioni da raccolta di grano, ritrovandole poi nella sua nuova ideologie che se, per alcune cose, si distaccava dal predecessore, per altre vi aderiva tanto compatte data la matrice socialista del pelato di Palazzo Venezia.

   Arriva adesso Sciascia, cammina lentamente, con un poco di fatica, il caldo, la sigaretta sempre accesa, a Ragusa. Ne parla Sgarbi di questa giornata. Sciascia, Bufalino e Sgarbi si avviano alla prefettura nel Palazzo del Governo. L’intento di Sciascia è di liberare un recluso. Un prigioniero che da almeno quaranta anni non vedeva la luce (siamo nel 1987). Immaginate 40 anni e più di galera, al buio, ma rinchiusi in un carcere d’una parete tanto sottile da sentire tutto il mondo attorno e, forse, da qualche leggerissimo strappo, sbirciare la punta di un naso, l’orlo di una giacca. Il prigioniero era noto, a Ragusa in molti lo sapevano, molti l’avevano visto quando era ancora in libertà o avvevano assistito alla sua carcerazione, dandogli un’ultima occhiata come Montresor con Fortunato, mentre pezzo a pezzo svaniva nella sua prigione. Quando la sottile parete, forse stoffa, che lo rinchiudeva venne divelta per lunga insistenza dello scrittore, ecco che venne alla luce, miracolosamente ancora in salute. Si trattava di una pittura di Duillio Cambellotti.


Definire Cambellotti prevede una lunga sfilza di termini, oltre a pittore, fu architetto, arredatore, decoratore pubblicitario, scultore etc… un neopreraffaellita dell’epoca moderna, o meglio  un esponente dell’Art Nouveau. Nell’occasione che trattiamo però è il Cambellotti pittore ad interessarci.


  Il dipinto, un poderoso accumulo di volti che roteano, quasi un mare con alte onde attorno ad una scogliera, il riconoscibilissimo ritratto di Mussolini, svanì, per ovvie ragioni storiche, nell’immediato dopoguerra. Cambellotti aveva ritratto più di un gerarca in questa pittura. Pur non essendo un gran estimatore di questo genere di pittura, non posso non notare come la retorica dei gesti non abbia impedito al Cambellotti di curare con grande eleganza la resa delle figura, vi è una forza e una armonia delle linee che ben si sposa con l’attività di decoratore e ideatore di arredamenti del nostro. Insomma in questa opera che, forse, raffigura la fondazione dei fasci (ma non ho potuto reperire molte informazioni in merito), l’intento di esaltazione politica e i necessari riferimenti alla retorica di Stato non hanno spento e cancellato le capacità di disegno di Cambellotti. Sciascia trattò poi della questione in un suo libro, invenzione della prefettura.

Ma torniamo a Guttuso. Non ho idea se la parentela sia stata o meno posta in luce da qualcuno. A me è tornato immediatamente davanti agli occhi uno dei dipinti più (ingiustamente a parer mio) celebrati del pittore di Bagheria: il funerale di Togliatti.


La figliolanza e la provenienza dal ceppo del Cambellotti è evidente, mi sembra, accentuata dall’intento retorico e di celebrazione politica, le bandiere che riempiono la scena come i teli, le vesti, gli strappi neri del Cambellotti, i volti ritratti dei gerarchi fascisti come la teoria dei membri del partito in Guttuso, la selva di pugni chiusi come il colonnato di mani tese. Insomma il fascismo assorbito in gioventù da Guttuso riemerge prepotente nel dipinto, quello che non emerge e non può emergere è quello stile dotato di una certa forza a al tempo stesso di una eleganza che nasce dalle svariate attivita del Cambellotti e dal gusto personale. Guttuso non ha particolare leggiadria e la forza è sostanzialmente forza bruta nel senso più basso del termine, corpi dal disegno debole (nel funerale il ricorso alla fotografia ha sopperito parzialmente ai problemi di fondo) incapacità di organizzare gli spazi, si osservi mentre nel Cambellotti  le masse, molto più serrate in uno spazio ristretto, si distribuiscano nello spazio trovando una collocazione sensata, riempiendo con una continuità che non cozza con la verosimiglianza, né con il gusto, mentre in Guttuso le teste, vere fotoriproduzioni bicolori (per esaltare il rosso o per evitare difficoltà di resa nei volumi?), si assommano  con scarti di dimensioni, errori di posizione, vicinanze eccessive, si sormontano eppure non riescono a riempire davvero lo spazio pittorico. Quello che è l’intento retorico della commozione e della forza della ideologia sulla morte, si perde e si incrina, indebolito, nel vasto afflusso di teste con incerta collocazione, laddove il moto ascensionale dei corpi, i volti e le mani nel Cambellotti restituisce un piccolo nucleo di una forza espressiva patente. Figlio dunque non dotato di natura Guttuso, davanti all’impegno retorico, ricorre a richiami ad una retorica che trovava un terreno più comune di quanto è permesso dire, ma se chi ha doti può compiere atto di retorica non snaturandosi del tutto e non privando l’opera di un valore ben al di là del momento storico e politico, chi è privo di doti particolari produce uno spettro, di volti bicolori e semi fotografici, dove la forza ideologica è sentita giusto da chi è inquadrato nella ideologia e si riferisce all’evento e non al dipinto. A quello toccò la prigione a questo l’onore degli altari librari d’arte, a quello un silenzio immeritato a questo una diffusione sconcertante. Un caso dove l’arte che paga per colpa della politica è più elevata dell’arte che è pagata per merito della politica.

IL GIGANTE E IL VAGABONDO – LA STORIA DI ERIC CAMPBELL

Il mondo del cinema muto è costellato di storie tragiche, sembra quasi che fosse inevitabile il giocare tutto per tutto e che la morte, l’annullamento, la povertà estrema, fossero la necessaria minaccia per poter creare qualcosa di duraturo. La morte, l’hanno detto in tanti, è uno degli inspiegabili motori dell’arte e di croci è costellata la via del pionieristico, pazzo, geniale cammino del cinema dei primi decenni del secolo passato. Forse ancora oggi questi tragici epiloghi hanno ancora spazio, ma resta l’impressione che all’epoca fosse davvero un gioco pericoloso e che a mettere la propria pelle sul tavolaccio fossero tutti, compresi i più grandi. Una serie di errori e anche le più luminose carriere potevano svanire per sempre.

  Tra queste molte croci oggi voglio brevemente ricordare quella dell’uomo che, per undici film, dal maggio del 1916 all’ottobre del 1917, ha rappresentato qualcosa di molto importante per Charlie Chaplin: Eric Campbell. Se nelle molte vite vissute da Chaplin c’è una fase dove il vagabondo è uscito dal suo rango di stella isolata e si è accostato a qualcosa che poteva sembrare una spalla comica è proprio questa vissuta accanto a Campbell. Il volto di Campbell, irlandese classe 1879, è conosciuto e ignorato al tempo stesso. Certamente nei ricordi di molti di voi questo volto è famigliare

Mentre altrettanto con sicurezza questo altro volto è totalmente nuovo.

Il gigante Campbell (1.98 di altezza) ha rappresentato il cattivo per eccellenza, l’orco dai lunghi baffoni inspidi, una figura grottesca e spaventosa, una sorta di Barbablù, intento a corteggiare, solitamente con pessimo esito, la bella di turno, costretto a subire gli attacchi del vagabondo, ma anche in grado di restituire con forza alcuni colpi.

Certo sarebbe eccessivo dire che Chaplin e Campbell abbiano anticipato Laurel & Hardy, i caratteri erano profondamente distinti e non c’era quella intenzione di farne una coppia comica reale, ma è innegabile che, quando la coppia comica più celebre doveva ancora comparire (nel 1921 faranno la loro prima apparizione assieme), il rapporto tra il vagabondo e il suo gigante iniziava a instillare nel pubblico un sempre maggiore interesse per questa formula a due, il grosso, un po’ manesco, ma anche goffo e gradasso, il minuto, lesto, a volte svanito.


Campbell, a differenza di altri attori dei film di Chaplin aveva alle spalle una formazione teatrale concreta, oltre ad una esperienza nel mondo del musical (era un baritono), insomma sapeva reggere la scena e questo spiega perché Chaplin si trovò ben presto a ritagliare sempre più spazio per loro due: nell’anno e mezzo di lavoro per la Mutual Chaplin girò 12 film, solo in uno non compare Campbell, One A. M., una sorta di eccellente prova di bravura del solo Chaplin, un monologo comico nato magari per sottolineare la mantenuta autonomia dell’attore e la totale indipendenza comica, ma resta il fatto che One A. M., per quanto straordinario, non risulta certo il migliore dei film nella serie di quell’anno e mezzo.

Come dicevo, il mondo del cinema muto è costituito da molte croci. I guai si accumularono tutti in pochi mesi, a giugno la moglie di Campbell morì improvvisamente per un attacco cardiaco, lasciando l’attore in uno stato di prostrazione che lo condusse ad esagerare con gli alcolici. Come se non fosse abbastanza pochi giorni dopo la morte della moglie l’unica figlia, Una, venne investita da un auto mentre andava a comprare un abito per il lutto: la ragazza riportò gravi ferite dalle quali si riprese solo con un lungo periodo a letto. Già questi due eventi avrebbero potuto schiantare un uomo, anche se mastodontico, ma vi si aggiunse un fatto che, in principio, parve uno spiraglio di luce. Campbell conobbe Pearl GIlman, attrice di vaudeville. Gilman nonostante la sua giovane età,  poco più che ventenne, aveva alle spalle già due divorzi lampo con facoltosi ex mariti e Campbell in quel momento, nonostante i problemi personali, vedeva la sua stella brillare: aveva seguito Chaplin alla First National e dunque il 1918 sarebbe certamente stato un anno di intenso lavoro e di ottimi incassi. Campbell perse letteralmente la testa e cinque giorni dopo aver incontrato la Gilman la sposò. L’assurdità di questo gesto dovette apparirgli presto, magari durante qualche intervallo di sobrietà, visto che tenne nascosta la cosa per settimane alla figlia convalescente. Secondo copione due mesi dopo la Gilman chiese il divorzio dichiarando di aver subito violenze e insulti da Campbell. La cosa spinse ulteriormente nell’alcol Eric che il 20 dicembre 1917, alle 4 del mattino di ritorno da una festa, rimase coinvolto in un grave incidente stradale restando ucciso sul colpo. Chaplin si mostrò rattristato, anche se tentò immediatamente di trovare un sostituto per il ruolo di Campbell (dobbiamo però ricordare che all’epoca il ritmo di produzione era vertiginoso, praticamente una commedia al mese e Chaplin era molto esigente). La tragedia non finisce purtroppo. Campbell venne cremato, ma nessuno si fece avanti per pagare le spese del funerale e così per diversi mesi le ceneri di Campbell rimasero abbandonate al Cimitero Rosedale. Sei mesi dopo vennero inviate, sempre senza che qualcuno pagasse la sepoltura o reclamasse l’urna, alla Handley Mortuary. Rimasero in questo luogo per anni, fino al 1938 quando la Handley chiuse e rinviò le ceneri a Rosedale.

Solo nel 1952 un dipendente del Rosedale pagò di sua tasca le spese consentendo che Campbell ricevesse una sepoltura. Oggi le ceneri di Campbell giacciono da qualche parte a Rosedale, recentemente è stata apposta una lastra commemorativa nel cimitero, ma sotto non c’è l’urna che, al momento, risulta smarrita. Nessuno ha mai reclamato i resti di Campbell. Se le vicissitudini delle ceneri di Campbell sono comprensibili mettendosi nei panni della figlia (una quindicenne, rimasta orfana e senza un supporto economico, costretta a tornare in Inghilterra e a trovarsi un lavoro in fretta e furia per sopravvivere) rimane l’amaro in bocca nel pensare alla totale assenza di un intervento di Chaplin in favore della figlia del fedele collega. Chaplin era certo molto impegnato e mieteva successo dietro successo, ma resta il fatto che, se si osservano ancora oggi gli undici film dove compare Campbell, appare chiaro che parte della fresca comicità di questi nasce proprio dalla perfetta alchimia tra il vagabondo e il suo gigante, una alchimia che forse avrebbe meritato post mortem un maggiore segno di riconoscenza.

PS: Sulla vicenda di Eric Campbell consiglio un recente documentario, Chaplin’s Goliath

MERCANTI DI FUMO SI SCONTRANO ovvero Diprè VS Bonito Oliva

Lo scontro Bonito Oliva – Diprè è l’antica lotta tra due esponenti della medesima religione. Gli adepti ai quali i due malcapitati si rivolgono sono praticamente gli stessi, variano nell’aspetto i luoghi e la forma, ma poco più. Se Bonito Oliva propaganda le sue croste dalla suite di un hotel, Diprè si riduce al salottino sgangherato della nonna, se Bonito Oliva darà a pagamento una mezz’ora di notorietà al peracottaro di turno e, a forza di invasione del mercato, riuscirà a trovare chi sia tanto fesso da sborsare soldi per quella paccottiglia abbacinato da “quotazioni” e cataloghi, Diprè fornirà un quarto d’ora di fama e accalappierà qualche incauto inebetito dalla televisione. Per Diprè il guadagno principale è forse nel fare leva sulla stupida convinzione dell’italiano medio che tutti si è artisti (declinato in questo caso a scultura, pittura e così andando) che tutti si è destinati a far mostre e dar mostra del proprio talento. Per Bonito Oliva il guadagno viene sia da questo, sia da un mercanteggiare più vasto con una rete nazionale e internazionale di suoi simili e infine dal far leva sulla convizione dell’italiano medio di capire cosa sia arte e di fare “utili” investimenti. Dipré non presenterà croste con tanto di bollino (pensiamo ad uno Schifano, impiastrone che un’ampia opera di saturazione del mercato a suon di grancassa ha portato a cifre al di là dell’assurdo) ma spesso le sue croste sono pari a quelle del Bonito Oliva. Se questo secondo presentasse i quadracci presentati dal primo maree di gonzi accorrerebbero a prenotare e a mettersi in salotto l’ennesimo vomito sopra tela.

A fare i caghetti intellettualoidi, quelli da ditino alzato e vocina flebile, staremmo ora ad elogiare Oliva, mentre in cuor nostro non ci riusciamo, entrambi sono fautori di rincoglionimento e di distruzione dell’arte, entrambi affamano i pochi reali artisti per una produzione in serie che non vale un fico secco. Quella pittura modernissima che è come il dollaro e la borsa: non pagate oggetti o capacità concrete e visibili, pagate titoli ed evanescenti quotazioni di mercato. Allora viva Diprè che, con il suo modo sbrindellato, il suo parlare risibile (ma se ascoltaste Bonito Oliva sentireste un italiano raffazzonato alla medesima maniera) ci mostra quanto sia nudo il re, se l’altro ci vende piscio in una lattina Coca Cola, Diprè ce lo offre in un misero bicchierino di plastica e ci dice subito: guardate che è piscio. Liberi di trangugiarlo e pagarlo fior di quattrini.