Spezzò il pane e disse
Nulla
Senza accordi e concordi
precordi del pollo arrosto,
transunstanziazione di se stesso
nella mistica del pollo,
senza ricordi dei primi tempi,
vagito di tanti anni,
accento,
gesti che sono accennati
al culmine di un momento,
gesti che si fermano a mezz’aria,
gesti di bocche spalancate
senza voler dare alcun lamento.
Di suo padre neppure manteneva il ricordo:
era morto prima che nascesse,
forse prima d’essere concepito
o forse qualche anno dopo, mah,
il ricordo comunque non c’era e qualche anno,
in più o in meno,
qualche anno era cosa da poco
ed aveva presto smesso di pensare a lui
come presto aveva smesso di recitare ogni preghiera,
almeno quelle,
disceso dalla scaletta non accennava
nessun Dio Salvi la Regina,
tramutato come fa qualche vecchia pia in Salve Regina,
tra l’inginocchiatoio e il fonte dell’acqua santa,
avendo più fede nei suoni che nel significato.
Non aveva ucciso nessuno,
almeno non aveva ucciso nessuno dal vero,
quando si uccidono ombre non hanno valore,
che siano ombre della mente o ombre su di un telo,
almeno così credeva,
eppure aveva questo istinto del vagabondaggio,
tentava di annotare ogni immagine
ma non sulla carta,
su una sottile linea di cellulosa e carne
certo che non l’avrebbe vista il giorno dopo,
e traguardava all’infinito ogni volto e paesaggio
con specchi che dessero riflessi come senza fine,
in biblioteche dai passaggi ovali
con neve di scherzo d’effetto,
soffitti che premevano sopra le teste
e sfondo completamente oscuro,
parallelismi di immagini, fissità contrapposte a movimenti,
non muoveva più nulla tutto d’un tratto,
gli bastava emergere dal buio
e fare un ghigno con un sigaro messo di traverso,
puntare un dito su un volto afferrato da una luce,
ma non aveva ucciso nessuno,
almeno così credeva,
e sfoderava riduzioni di se stesso, riproduzioni,
sfalsava i piani, una brocca poteva scivolare,
una figura spostarsi con un gesto e non trovare
-che portento-
più la sua posizione all’inizio del piano.
E vagava, vagava per il mondo,
sempre tentando di conciliare il prima con il dopo,
quello che voleva fare e quello che gli chiedevano,
fosse anche un attimo per riunire
quattro straccioni shakespeariani,
fuliggine in scene frammiste,
importa poco fosse Malta, il Marocco o tra i Dogi,
e Tiziano….
Tiziano era morto, pace all’anima sua,
requiescat ovunque sia e qualunque senso abbia,
requiescat come una faccia febbricitante sulla sabbia,
quando in bocca senti tutto quel sapore informe,
quando il pensiero svelando tutto alla fine si posa
capendo che, in fondo, Ade e Dioniso sono una sola cosa.
Tormentato al nord, perseguitato,
rifugiatosi al sud e poi scacciato,
se fosse stato semplice avrebbe affittato un mulino,
anzi una distesa di mulini di ferro
con luci e fumo,
benzina gocciolante,
grumo
di bianco che è sempre più a spessore,
è naturale,
sempre più a spessore di ogni altro colore.
Spezzo il pane e disse
Nulla
E brocca o piatto, bicchiere e posate,
tutto rovesciato d’un colpo,
con un frastuono da crepacuore,
un accidente
con riverberi infiniti sulle acque
che rischiavano, sembra incredibile, di stagnare,
un accidente
ancora più grande di quando videro
van der Goes
al tempo di massima fioritura del giglio,
e certo serpeggiò un mormorio tra la gente,
e certo qualcuno almeno in cuor suo svenne,
un mutamento e più non era lo stesso
come provocò poi quel malefico portento
-quello sradicava come l’altro seminava-
che ti attrasse e avresti tentato
di ritrarre se ti avessero mai permesso un giorno,
in qualche modo, in qualche tempo,
di ritrarre, almeno avresti provato,
magari in un modo nuovo,
fuori dai giochi di ombre, dai fasci di luce,
ritratto in un terzo modo
che spezzasse tra illimitato e delimitato,
tra immobile e mobile,
il binomio
in un modo che solo nella mente può essere concepito,
una sorta di nuova rivelazione
come il ricordo di un volto
il volto del padre.