Lina Wertmuller nel XIXesimo secolo

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Sarah Wilkinson

The Spectres of Lord Oswald and Lady Rosa, Including an Account of the Marchioness of Civetti, who was basely consigned to a Dungeon beneath her Castle by her eldest Son, whose cruel Avarices plunged him into the Commission of the worst of Crimes, that stain the Annuals of the Human Race: An Original Romantic Tale

Minerva Press 1814

Brevi noterelle sorte dal Caso Moro di Giuseppe Ferrara (ovvero come le Santificazioni Laiche e Semi religiose siano pericolose)

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   In uno dei racconti in merito a Dionigi Tiranno di Siracusa leggiamo che, per spiegare ad un suo amico quanto la sua condizione di potente non fosse tale da renderlo felice, Dionigi mise le sue vesti addosso a questo conoscente, lo collocò sul trono, diede a lui lo scettro e al di sopra della sua testa fece posizionare una spada acuminatissima, trattenuta al soffitto solo da un filo sottile. Il potere sommo, diceva, aveva come contrappasso il rischio perenne.

   L’altro giorno è venuto a mancare Giuseppe Ferrara, un regista che non ricordo particolarmente eccetto che per il Caso Moro che mi capitò di vedere a pezzi quando venne trasmesso in televisione. Non conservo particolari impressioni, tranne forse un certo senso di “eroismo socratico” che attraversava le parti che ebbi modo di vedere. Gian Maria Volontè reintrepreta Moro, dopo averlo fatto pur non ufficialmente in Todo Modo di Petri, l’interpetazione è sempre ottima visto l’attore, ma certo quel Moro, teoricamente realistico, suona più fasullo del Moro ambiguo e visionario della bella opera di Petri. Il Presidente, così viene nominato nel film di Petri, sembra molto più vicino alla figura del politico DC e certo mostra quale fosse l’opinione che una parte della società italiana provava nei riguardi di Aldo Moro. Poi il sequestro, la carcerazione, la morte e si è formato il Santino.

   Tragica conseguenza di un fatto tragico è l’idealizzazione del morto che viene liberato di tutti i suoi atti e di tutte le sue azioni e portato ad assumere il compito di diventare rappresentante di speranze e desideri irrealizzati. Il corpo di Moro, come il corpo di Mussolini o di altri politici morti ammazzati ha assunto un valore propagandistico tra i vari schieramenti rimasti. Resta certo che con la sua morte le voci fuori dal coro a condanna delle azioni politiche di Moro e della sua funzione all’interno della DC sono diventate pochissime, ricordo ad esempio il Io se fossi Dio di Gaber che nel 1980, a pochi anni dai fatti, aveva ancora il coraggio di cantare

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 Io se fossi Dio,
quel Dio di cui ho bisogno come di un miraggio,
c’avrei ancora il coraggio di continuare a dire
che Aldo Moro insieme a tutta la Democrazia Cristiana
è il responsabile maggiore di trent’anni di cancrena italiana.
Io se fossi Dio,
un Dio incosciente enormemente saggio,
avrei anche il coraggio di andare dritto in galera,
ma vorrei dire che Aldo Moro resta ancora
quella faccia che era!

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Dark Star (John Carpenter e Dan O’Bannon, 1974)

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Nel 1974 John Carpenter era un giovane regista non ancora noto al grande pubblico (ma già messosi in luce come co-autore del soggetto del cortometraggio The Resurrection of Broncho Bill, premio Oscar per la sceneggiatura 1970) e sarebbe rimasto così per alcuni anni fino al successo di Halloween (1978). Assieme ad un suo compagno di Università, Dan O’Bannon, decise di realizzare un film che avevano scritto quando erano ancora studenti. Si trattava di un soggetto di fantascienza, a carattere comico, con evidenti richiami sia al Kubrick di 2001 che a quello di Strangelove. Nacque così Dark Star.

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tumblr_njbwfhXOEW1r6ivyno1_1280Con un budget di 60.000 dollari Dark Star rappresenta il primo vero film professionale di Carpenter, pur essendo in origine un saggio girato in 16 millimetri e poi portato a 35 millimetri con aggiunta di scene e cambiamenti nella sceneggiatura. Carpenter a tal proposito non si è mai detto molto soddisfatto del risultato perché riteneva che si trattasse di un ottimo saggio studentesco mutato in un cattivo film.

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La grande bellezza ovvero dove si scopre che Fellini rompeva meno le palle, Totò è morto e Agu’ era ergonomica.

Mastroianni

La cosa buona di vedere fuori tempo massimo un film che ha suscitato discussioni è che non ci si infila in nessun ginepraio. L’altro giorno ho avuto occasione di vedere La Grande Bellezza, premio Oscar come migliore film straniero. Sentivo mesi e mesi or sono che si trattava di un figlioccio de La Dolce Vita, a mio parere non ha nulla a che vedere. Trovo tre padri putativi principali

8 1/2  Una certa ossessione per tentare di fare il visionario e anche una certa tendenza ad andare avanti a spinte, pizzichi e bocconi

Signori si nasce: Servillo è praticamente Totò nei panni del principe Zazzà

Dove vai in vacanza (episodio A. Sordi – A. Longhi): la critica al mondo artistico ricorda tremendamente Sordi e la moglie Agu’ spaparanzata sulla sedia alla Biennale

Il film è disomogeneo. La prima parte, difficile da digerire, è una sorta di parkinsoniana incapacità a tenere quella cazzo di telecamera ferma, è come se avessero lardellato la cinepresa, scivola, sguscia, sopra, sotto, di lato, indietro… una autentica, fastidiosa, noiosa giostra ripetitiva. La seconda parte vede una telecamera spesso ferma. Scelta del regista? Non saprei. Il sospetto è che tutto questo sfoggio di movimenti sia per coprire l’assenza di idee concrete sul come usare al meglio l’ambiente salvo poi ricorrere, come dirò poi, alle cartoline da spot Barilla. Niente di solido.

La sceneggiatura è ridicola. Da una parte pare un film degli anni ’70 (rieccoci a Sordi e a Moretti) con delle critiche al mondo degli intellettuali/intellettualoidi talmente datate da non graffiare praticamente mai, l’impressione è che sia il parto di un provincialismo capitolino e che vada bene ad un pubblico provinciale e un po’ burino. Le citazioni paiono dovere molto a certe pagine internet e in generale non si può certo parlare di grandi concetti o frasi notevoli. Il meglio è all’inizio con Celine, salvo poi chiedersi lungo il film: che cazzo ha a spartire Celine con questa tronfia pagliacciata?

Mischiare i toni da commediola birichina “ti chiavasse, ti chiavasse” a pseudo riflessioni esistenziali (madonna Servillo, ma al cinema che ti capita? Tanto bravo a teatro tanto scarso al cinema) rende il tutto non tanto una sorta di turbinio dell’esistenza, quanto un manualetto perbenista e, come penso sia stato già detto, una sorta di figlio di Dagospia. Tra scuregge (mentali), nani, cardinali, puttane e schiavi misogini le due ore arrancano che è un dispiacere.

La fotografia, dicevano tanto della fotografia, ora, tranne un ebete (o un genio) chiunque con i mezzi a disposizione è in grado di rendere “maggggica” Roma, in particolare quando mi fai carrellate in angolini semibui o in gallerie con monumenti, la sensazione del touring club Italia è persistente. L’Oscar non ho capito da cosa sia scaturito, sarà che la cultura generale è talmente bassa da ritenere (da noi come dagli amici d’oltre Oceano) un paio di immaginette da cartolina e 20 frasi da esistenzialismo ricchione (fag) condite da una pungente (‘nsomma) critica alle manie da intellettuali della fauna capitolina un capolavoro mai visto… ecco personalmente non ho mai visto il capolavoro, in più di due ore non riesco a salvare praticamente nulla della sceneggiatura. Nulla della recitazione (Lillo di Lillo e Greg, Verdone o Servillo che recitano praticamente alla pari e perfino la Ferilli… dovrebbe già far sorgere un sospetto). Fotografia da catalogo e in certi momenti si aspetta che venga fuori il prezzo di questo o quel arredo e il numero per chiamare Gep. Ho trovato carina (ma giusto carina) la scenettina del funerale e quella del bacio della mano della Santa, ma penso fosse più la stanchezza e la sensazione che questa paccottiglia volgesse al termine.

Avevano ragione quanti sostenenevano che in fondo è uno spot di Roma. Una Roma identica a New York, Parigi, Madrid o quello che si voglia, solo che c’ha un rudere vista attico e qualche statua ignuda. La critica sociale è ridicola e talmente datata da far pensare che sia una parodia di una critica sociale (e poi a che serve? Datemi un film, non un manualetto di conversazione spiritosella). Cagata planetaria. Si rimanda ai tre padri putativi per avere gli elementi di questo film meglio messi in scena e più gradevoli, Zazzà batte Servillo, Sordi e Agu’ battono testate agli acquedotti o impiastricciate di tele, 8 1/2 dura leggermente meno e poi le pippe sono esposte con tono da maramaldo.

IL GIGANTE E IL VAGABONDO – LA STORIA DI ERIC CAMPBELL

Il mondo del cinema muto è costellato di storie tragiche, sembra quasi che fosse inevitabile il giocare tutto per tutto e che la morte, l’annullamento, la povertà estrema, fossero la necessaria minaccia per poter creare qualcosa di duraturo. La morte, l’hanno detto in tanti, è uno degli inspiegabili motori dell’arte e di croci è costellata la via del pionieristico, pazzo, geniale cammino del cinema dei primi decenni del secolo passato. Forse ancora oggi questi tragici epiloghi hanno ancora spazio, ma resta l’impressione che all’epoca fosse davvero un gioco pericoloso e che a mettere la propria pelle sul tavolaccio fossero tutti, compresi i più grandi. Una serie di errori e anche le più luminose carriere potevano svanire per sempre.

  Tra queste molte croci oggi voglio brevemente ricordare quella dell’uomo che, per undici film, dal maggio del 1916 all’ottobre del 1917, ha rappresentato qualcosa di molto importante per Charlie Chaplin: Eric Campbell. Se nelle molte vite vissute da Chaplin c’è una fase dove il vagabondo è uscito dal suo rango di stella isolata e si è accostato a qualcosa che poteva sembrare una spalla comica è proprio questa vissuta accanto a Campbell. Il volto di Campbell, irlandese classe 1879, è conosciuto e ignorato al tempo stesso. Certamente nei ricordi di molti di voi questo volto è famigliare

Mentre altrettanto con sicurezza questo altro volto è totalmente nuovo.

Il gigante Campbell (1.98 di altezza) ha rappresentato il cattivo per eccellenza, l’orco dai lunghi baffoni inspidi, una figura grottesca e spaventosa, una sorta di Barbablù, intento a corteggiare, solitamente con pessimo esito, la bella di turno, costretto a subire gli attacchi del vagabondo, ma anche in grado di restituire con forza alcuni colpi.

Certo sarebbe eccessivo dire che Chaplin e Campbell abbiano anticipato Laurel & Hardy, i caratteri erano profondamente distinti e non c’era quella intenzione di farne una coppia comica reale, ma è innegabile che, quando la coppia comica più celebre doveva ancora comparire (nel 1921 faranno la loro prima apparizione assieme), il rapporto tra il vagabondo e il suo gigante iniziava a instillare nel pubblico un sempre maggiore interesse per questa formula a due, il grosso, un po’ manesco, ma anche goffo e gradasso, il minuto, lesto, a volte svanito.


Campbell, a differenza di altri attori dei film di Chaplin aveva alle spalle una formazione teatrale concreta, oltre ad una esperienza nel mondo del musical (era un baritono), insomma sapeva reggere la scena e questo spiega perché Chaplin si trovò ben presto a ritagliare sempre più spazio per loro due: nell’anno e mezzo di lavoro per la Mutual Chaplin girò 12 film, solo in uno non compare Campbell, One A. M., una sorta di eccellente prova di bravura del solo Chaplin, un monologo comico nato magari per sottolineare la mantenuta autonomia dell’attore e la totale indipendenza comica, ma resta il fatto che One A. M., per quanto straordinario, non risulta certo il migliore dei film nella serie di quell’anno e mezzo.

Come dicevo, il mondo del cinema muto è costituito da molte croci. I guai si accumularono tutti in pochi mesi, a giugno la moglie di Campbell morì improvvisamente per un attacco cardiaco, lasciando l’attore in uno stato di prostrazione che lo condusse ad esagerare con gli alcolici. Come se non fosse abbastanza pochi giorni dopo la morte della moglie l’unica figlia, Una, venne investita da un auto mentre andava a comprare un abito per il lutto: la ragazza riportò gravi ferite dalle quali si riprese solo con un lungo periodo a letto. Già questi due eventi avrebbero potuto schiantare un uomo, anche se mastodontico, ma vi si aggiunse un fatto che, in principio, parve uno spiraglio di luce. Campbell conobbe Pearl GIlman, attrice di vaudeville. Gilman nonostante la sua giovane età,  poco più che ventenne, aveva alle spalle già due divorzi lampo con facoltosi ex mariti e Campbell in quel momento, nonostante i problemi personali, vedeva la sua stella brillare: aveva seguito Chaplin alla First National e dunque il 1918 sarebbe certamente stato un anno di intenso lavoro e di ottimi incassi. Campbell perse letteralmente la testa e cinque giorni dopo aver incontrato la Gilman la sposò. L’assurdità di questo gesto dovette apparirgli presto, magari durante qualche intervallo di sobrietà, visto che tenne nascosta la cosa per settimane alla figlia convalescente. Secondo copione due mesi dopo la Gilman chiese il divorzio dichiarando di aver subito violenze e insulti da Campbell. La cosa spinse ulteriormente nell’alcol Eric che il 20 dicembre 1917, alle 4 del mattino di ritorno da una festa, rimase coinvolto in un grave incidente stradale restando ucciso sul colpo. Chaplin si mostrò rattristato, anche se tentò immediatamente di trovare un sostituto per il ruolo di Campbell (dobbiamo però ricordare che all’epoca il ritmo di produzione era vertiginoso, praticamente una commedia al mese e Chaplin era molto esigente). La tragedia non finisce purtroppo. Campbell venne cremato, ma nessuno si fece avanti per pagare le spese del funerale e così per diversi mesi le ceneri di Campbell rimasero abbandonate al Cimitero Rosedale. Sei mesi dopo vennero inviate, sempre senza che qualcuno pagasse la sepoltura o reclamasse l’urna, alla Handley Mortuary. Rimasero in questo luogo per anni, fino al 1938 quando la Handley chiuse e rinviò le ceneri a Rosedale.

Solo nel 1952 un dipendente del Rosedale pagò di sua tasca le spese consentendo che Campbell ricevesse una sepoltura. Oggi le ceneri di Campbell giacciono da qualche parte a Rosedale, recentemente è stata apposta una lastra commemorativa nel cimitero, ma sotto non c’è l’urna che, al momento, risulta smarrita. Nessuno ha mai reclamato i resti di Campbell. Se le vicissitudini delle ceneri di Campbell sono comprensibili mettendosi nei panni della figlia (una quindicenne, rimasta orfana e senza un supporto economico, costretta a tornare in Inghilterra e a trovarsi un lavoro in fretta e furia per sopravvivere) rimane l’amaro in bocca nel pensare alla totale assenza di un intervento di Chaplin in favore della figlia del fedele collega. Chaplin era certo molto impegnato e mieteva successo dietro successo, ma resta il fatto che, se si osservano ancora oggi gli undici film dove compare Campbell, appare chiaro che parte della fresca comicità di questi nasce proprio dalla perfetta alchimia tra il vagabondo e il suo gigante, una alchimia che forse avrebbe meritato post mortem un maggiore segno di riconoscenza.

PS: Sulla vicenda di Eric Campbell consiglio un recente documentario, Chaplin’s Goliath