La grande bellezza ovvero dove si scopre che Fellini rompeva meno le palle, Totò è morto e Agu’ era ergonomica.

Mastroianni

La cosa buona di vedere fuori tempo massimo un film che ha suscitato discussioni è che non ci si infila in nessun ginepraio. L’altro giorno ho avuto occasione di vedere La Grande Bellezza, premio Oscar come migliore film straniero. Sentivo mesi e mesi or sono che si trattava di un figlioccio de La Dolce Vita, a mio parere non ha nulla a che vedere. Trovo tre padri putativi principali

8 1/2  Una certa ossessione per tentare di fare il visionario e anche una certa tendenza ad andare avanti a spinte, pizzichi e bocconi

Signori si nasce: Servillo è praticamente Totò nei panni del principe Zazzà

Dove vai in vacanza (episodio A. Sordi – A. Longhi): la critica al mondo artistico ricorda tremendamente Sordi e la moglie Agu’ spaparanzata sulla sedia alla Biennale

Il film è disomogeneo. La prima parte, difficile da digerire, è una sorta di parkinsoniana incapacità a tenere quella cazzo di telecamera ferma, è come se avessero lardellato la cinepresa, scivola, sguscia, sopra, sotto, di lato, indietro… una autentica, fastidiosa, noiosa giostra ripetitiva. La seconda parte vede una telecamera spesso ferma. Scelta del regista? Non saprei. Il sospetto è che tutto questo sfoggio di movimenti sia per coprire l’assenza di idee concrete sul come usare al meglio l’ambiente salvo poi ricorrere, come dirò poi, alle cartoline da spot Barilla. Niente di solido.

La sceneggiatura è ridicola. Da una parte pare un film degli anni ’70 (rieccoci a Sordi e a Moretti) con delle critiche al mondo degli intellettuali/intellettualoidi talmente datate da non graffiare praticamente mai, l’impressione è che sia il parto di un provincialismo capitolino e che vada bene ad un pubblico provinciale e un po’ burino. Le citazioni paiono dovere molto a certe pagine internet e in generale non si può certo parlare di grandi concetti o frasi notevoli. Il meglio è all’inizio con Celine, salvo poi chiedersi lungo il film: che cazzo ha a spartire Celine con questa tronfia pagliacciata?

Mischiare i toni da commediola birichina “ti chiavasse, ti chiavasse” a pseudo riflessioni esistenziali (madonna Servillo, ma al cinema che ti capita? Tanto bravo a teatro tanto scarso al cinema) rende il tutto non tanto una sorta di turbinio dell’esistenza, quanto un manualetto perbenista e, come penso sia stato già detto, una sorta di figlio di Dagospia. Tra scuregge (mentali), nani, cardinali, puttane e schiavi misogini le due ore arrancano che è un dispiacere.

La fotografia, dicevano tanto della fotografia, ora, tranne un ebete (o un genio) chiunque con i mezzi a disposizione è in grado di rendere “maggggica” Roma, in particolare quando mi fai carrellate in angolini semibui o in gallerie con monumenti, la sensazione del touring club Italia è persistente. L’Oscar non ho capito da cosa sia scaturito, sarà che la cultura generale è talmente bassa da ritenere (da noi come dagli amici d’oltre Oceano) un paio di immaginette da cartolina e 20 frasi da esistenzialismo ricchione (fag) condite da una pungente (‘nsomma) critica alle manie da intellettuali della fauna capitolina un capolavoro mai visto… ecco personalmente non ho mai visto il capolavoro, in più di due ore non riesco a salvare praticamente nulla della sceneggiatura. Nulla della recitazione (Lillo di Lillo e Greg, Verdone o Servillo che recitano praticamente alla pari e perfino la Ferilli… dovrebbe già far sorgere un sospetto). Fotografia da catalogo e in certi momenti si aspetta che venga fuori il prezzo di questo o quel arredo e il numero per chiamare Gep. Ho trovato carina (ma giusto carina) la scenettina del funerale e quella del bacio della mano della Santa, ma penso fosse più la stanchezza e la sensazione che questa paccottiglia volgesse al termine.

Avevano ragione quanti sostenenevano che in fondo è uno spot di Roma. Una Roma identica a New York, Parigi, Madrid o quello che si voglia, solo che c’ha un rudere vista attico e qualche statua ignuda. La critica sociale è ridicola e talmente datata da far pensare che sia una parodia di una critica sociale (e poi a che serve? Datemi un film, non un manualetto di conversazione spiritosella). Cagata planetaria. Si rimanda ai tre padri putativi per avere gli elementi di questo film meglio messi in scena e più gradevoli, Zazzà batte Servillo, Sordi e Agu’ battono testate agli acquedotti o impiastricciate di tele, 8 1/2 dura leggermente meno e poi le pippe sono esposte con tono da maramaldo.

LE VOCI DI EDUARDO – MADRID, MAGGIO 2014

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Lo ammetto: avevo bisogno di una scossa, uno stimolo, per tornare sopra questo spazio. A volte ci sono momenti di sovraccarico lavorativo e si finisce per lasciare da parte (ma non dimenticare) qualcosa che ci dona piacere. Lo stimolo è venuto dalla compagnia Servillo, a Madrid, in azione con uno dei testi che più ho amato di Eduardo: le Voci di dentro. 4 serate da tutto esaurito e, visto dal vero, si capisce il perché. Al di là certo del richiamo di poter vedere da vicino (molto da vicino, poi dirò) il protagonista di una pellicola premio oscar, è innegabile la grandezza come attore di Servillo e l’ottima riuscita dello sforzo collettivo. Non mi metterò a fare insensati paragoni tra Servillo attore ed Eduardo attore, sarebbe stupido prima di tutto perché, ahime, per ragioni anagrafiche non ho potuto vedere Eduardo in scena, inoltre si tratta certo di due attori piuttosto diversi e d’altro canto sarebbe ingiusto in generale fare paragoni perché Eduardo è Eduardo.

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Eduardo ci ha lasciato la sua versione in studio delle Voci di Dentro (una seconda versione, la prima purtroppo andò distrutta), testo duro, aspro, forse giustamente accusato di non essere del tutto completo, ma in grado di fornire numerosi spunti di riflessione e di una modernità o eternità propria di un classico. Si deve dire una cosa. Se si ha negli occhi e nelle orecchie la versione eduardiana quella della compagnia Servillo può scatenare una iniziale confusione, salvo poi, in un secondo tempo, spingere a riconoscere che, a conti fatti, non è snaturata in nulla l’opera di Eduardo e, anzi, forse è proprio Eduardo ad avere snaturato (nessuna connotazione negativa in questo termine) la sua opera in occasione della versione in studio. Se si osserva la registrazione e si analizzano anche gli accorgimenti visivi e coloristici voluti espressamente da Eduardo, si comprende come il grande drammaturgo avesse deciso di calcare la mano sull’aspetto allucinato e allucinante di questo intrico di sogni e realtà. Il colore è virato verso toni acidissimi e la stessa recitazione eduardiana tende a sottolineare, quasi sventrando a volte le parole o trasformandole in lame, la tragicità e l’orrore. Insomma il significato doveva prevalere strappandosi di dosso lo scheletro della commedia. A teatro domina invece l’ilarità, la parte buffonesca, la battuta fulminante e il contrappunto, ma non è per opera della compagnia Servillo, è per opera di Eduardo. Il testo di Eduardo è una commedia vera e propria, una commedia dove la risata (fosse anche amara) domina e sovrasta ogni altra cosa, in tutti e tre gli atti si ride e si ride forte, il pubblico madrileño, godendo anche della traduzione a schermo, ha espresso con fragorosissime risate il suo apprezzamento per gli inghippi e le stramberie dei componenti. Il messaggio passa, senza dubbio, una rianalisi a bocce ferme permette di cogliere quanto Eduardo esprime ed è tutt’altro che da ridere, un mondo di cani che si azzannano, la totale mancanza di fiducia all’interno della propria famiglia, l’orrore di un omicidio come quotidianità, ma il tutto avviene comunque non dimenticando la risata, veicolo principe, forse l’unico che allargando bocca, gola, cuore e aprendosi un varco attraverso le lacrime di contentezza arriva a “infettare” con il dubbio lo spettatore. Il sogno della serva, il discorso dei morti di Alberto Saporito, la scena dell’armadio, la successione di famigliari, perfino il discorso finale, non smettono di suscitare una giusta e filologicamente ineccepibile ilarità. L’Eduardo televisivo è monco del pubblico e, forse a compensare questo polmone assente, Eduardo caricò tutto a danni del superstite e fece virare come il colore così anche il tono. Le voci di dentro viste in teatro donano dunque il vero senso del testo, restituendo quanto perduto. E anche se Primo Levi colpì nel segno lamentando che il pubblico rideva troppo, non cogliendo il fondo amarissimo e inquietante, è pur vero che il materiale per suscitare ilarità c’è tutto e che il soffermarsi alla riflessione non può essere azione da compiersi mentre una azione si dipana davanti ai nostri occhi. Io stesso, fruitore compulsivo della versione eduardiana televisiva e lettore e rilettore del testo teatrale, percepivo che in alcuni istanti il pubblico pareva andare oltre (ma si badi che il mio parere era falsato a sua volta dalla conoscenza del testo e dunque dalla sedimentata consapevollezza della durezza di fondo) ma resta innegabile che il trionfo, trionfo di teatro vero, ripetuto anche con Servillo, era debitore proprio di questo divertimento innegabile.

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Sul palcoscenico l’opera è nuda, così come la scenografia essenziale eppure efficacissima (dalle immagini si potrebbe temere qualche “moderno” concettualismo, ma in realtà è proprio il focalizzarsi sull’essenziale) tanto nuda da mostrare anche i difetti: non dimentichiamo che fu opera di 7 giorni, scritta in fretta e furia per il venir meno alla compagnia di Eduardo di Titina, e il terzo atto, ritengo, rivela in teatro le sue debolezze. La conclusione occhieggiante al poliziesco, una certa incompiutezza della storia, la sensazione che i personaggi vengano levati irrisolti e per certi versi l’assurda virata dall’accusa violenta alla famiglia Cimmaruta, assassini della fiducia, ad un “ci vedremo poi e vi spiegherò”, sono le ferite che dimostrano come lo slancio si rivelò spento verso il terzo atto, eppure è una delle opere di Eduardo che preferisco, ed è grandiosa nel suo restituire un teatro divertente, perfino buffo, eppure profondo.

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Infine una piccola nota marginale. Dopo lo spettacolo ho avuto occasione di incontrare Servillo, di persona è assai cortese, quasi timido, piuttosto distante dalla immagine a volte restituita durante alcune interviste. Molto disponibile con il suo pubblico e aperto anche a discutere del “suo Eduardo”, anzi, direi incuriosito di toccare con mano l’effetto. Nessun divismo post-oscar, come ha avuto modo di dire in varie occasioni è il teatro a salvarlo, tenendolo con i piedi per terra. A partire dalla prossima stagione lo spettacolo dovrebbe tornare a Milano, Roma e Napoli. Vi consiglio caldamente di non perdere l’occasione di vederlo o rivederlo.