L’ONDA

La morte è un’onda

più forte della vita

sovrasta il nulla dei nostri sensi

e immediata la copre e la scopre

lasciandola poi alla vista confusa

 *

Del piccolo che siam stati

per pochi giorni riverbera una luce

dal profondo delle acque spumose

e distorce la pelle in cristallo,

le anime luccicano come diamante

e l’onda della morte

gettato il feretro piano piano si spande

sommerge la stanza

le mura

e attraversa le vie che si placano

della arsura quotidiana

 *

E tutti si domandano cosa fummo in vita

scovando piccole perle tra le valve

che poderose e magnifiche

appaiono per la liquida lente

tra loro i gioielli fantasma

si passano, di mano in mano,

convinti del toccare quello che sognano

nelle lunghe notti di una veglia

*

A mormorare preghiere

che addormentino fino al mattino

il bisogno carnale del sonno.

A mormorare per i vicoli

le molte gesta, le imprese, il destino

di quel che di corone bisogno

non ha e non ha mai avuto

è come se un lieve lume alla porta

potessimo porre

ad indicare al dolore vagabondo

che da noi già è stata fatta scorta

di ogni danno

a sufficienza per queste ed altre stagioni,

piagato abbastanza il volto

tra le mani

per quello che ci è stato tolto,

il domani

di una indifferente vivere,

di una insensibile esistenza

dove non troveremmo nulla di cui parlare

perché delle molte vite essenza

indicibile è il nulla, il niente, il consumare

i giorni senza che si possa

alla fine una somma tirare.

E CHI VI DICE CHE IO SCRIVO POESIE?

Arriverà presto il tempo

che invocherete tra cielo e terra

a grande voce

un qualche editore famoso

perché mi faccia trovare

un pacco di soldi

sotto il cuscino

per leggere ancora di questi versi

 *

Ma di poesia non si vive

con poesia non si guadagna

non tintinnano i dindi

tra le mani del poeta

“e chi vi dice che io scrivo POESIE?”

 *

Arriverà presto il tempo

che raccoglierete firme sopra firme,

stilerete documenti, liste, appelli,

appenderete manifesti

alle porte delle chiese

srotolerete striscioni

alle porte delle case,

invocando un intervento del Ministero

per leggere ancora di questi versi

 *

Ma i Ministeri non si curano

di prosa tantomeno di poesia

e non v’è nessun poeta

nella classifica importante

dell’uomo più potente

a livello mondiale e universale.

“e chi vi dice che io scrivo POESIE?”

*

Premerete alla porta

della mia casa

con tanta forza e furia

da sanguinare

e un quotidiano nazionale

mi darà una rubrica

– non si nega una rubrica

al peggior furfante –

che io colorerò di sangue

dove porrò il primo verso,

il settimo verso

e metà dell’ultimo

e vi darò gli estremi IBAN

dove mandare il vostro denaro

e svelerò, piano piano,

a intervalli di migliaia di euro,

altri versi, altri suoni,

e vi sussurrerò, sorridendo,

che per la mia poesia la carta è orribile,

le cartiere non sono più in grado,

e solo la filigrana dei 500 euro

è un supporto degno d’ispirazione.

 *

Ricorda, leggendo,

non mi svendo

valgo più del peso dell’oro

che dovrai accumulare

sotto il materasso

negli anni di furti raminghi

per le contrade che ti videro

fin da piccino

o per le nuove terre della disperazione

che inseguisti un giorno

lasciato alle spalle il nome,

valgo più di tutto quel denaro

che, a mani piene, recherai

sopra carriole

uscito in anticipo dal lavoro

per combattere la svalutazione

– non della economia, no,

la svalutazione che sarà mia

del valore del tuo denaro

a raffronto delle mie parole-

e quando ti darò mezzo suono,

sia della dimensione di un giuggiolo

ti parrà forte come un tuono

alle tue orecchie di picciol cucciolo

del mondo

e strizzerai tanto d’occhi al lampo

temendo di perdere la vista.

CARMELO BENE (Alberto Arbasino, Repubblica -pardon-, 12 aprile 2012)

Riporto il vorticoso ricordo di Arbasino di C. B.

Tanti anni fa, i critici drammatici «togati e patentati» non frequentavano certo le cantine “off”. Assistevano alle frequentissime grandi prime delleg randi compagnie, nei teatri maggiori, e componevano ampie recensioni di tipo saggistico, con attenzione ai dettagli e vasta circolazione di idee. Interferenze letterarie continue. Ma nessun “teatrino” minore, così come niente spettacoli di rivista, nemmeno per Totò o Macario o la Osiris. Né tantomeno per gli enormi successi dei Legnanesi dialettali, a Milano, in quel santuario dei Ricci e delle Pagnani che era l’ Odeon delle signore della scenae delle signore dabbene. Tutto cambiò con Carmelo Bene, credo. Forse veramente lo “scoprimmo” con Ennio Flaiano, e qualche dotto inevitabile paragone con Antonin Artaud, su una modesta scena remota dal centro storico e dai circuiti “bien”. Altro che maniere chic, là. Ogni dettaglio sembrava – ed era – approssimativo e casuale. Altro che le geometrie post-brechtiane di Strehler o le raffinatezze minuziose di Visconti o le accurate eleganze di tanti altri. Il set di quella Salomè indimenticabile poteva rappresentare l’ after hours di un produttore povero. Bottiglie vuote di whisky e sambuca sparse in terra per dare l’ idea dell’ orgia, fra cenci Art Nouveau da piazza Bologna appesi a corde da bucato. Soli mobili, un radiofono-bar-tabernacolo, e una pattumiera foderata con la stessa peluche rossa dei palchi all’ Opera. Tutti i personaggi in scena, abbigliati di fantasiosità rossee-oro, con tiare, mitrie, paralumi, passamanerie, fiori di pezza, mimando l’ Alba Dopo il Party in Piscina nella Notte d’ Antonioni: sguardi opachi, avanti-e-indietro casuali, sigarette a metà, bicchiere che non si sa se mettere giùo portare alla bocca. Come disco, Santa Lucia luntana. Poi cambia, ed ecco il Danubio blu. «Wilde oltraggiato», intitolarono i giornali. Provocando finezze d’ epoca: «Pascoli ustionato da uno scoppio di bombole», «Carducci derubato di giambi ed epodi». «D’ Annunzio investito da una Giulietta che fugge». Ma prima di attaccare col testo d’ Oscar Wilde per almeno un quarto d’ ora Carmelo abbigliato come il Nerone di Petrolini traballava bofonchiando inintelligibile. Erodiade era un travestito florido e protervo, sempre con una schiava in braccio. Salomè, impostata come un Calibano da filodrammatiche, un ragnetto col sedere coperto di lividi, saltellando a quattro zampe e uggiolando «voglio la testa, yé-yé» con versi da Beatles ogni volta che Erode le offre pavoni o crisopazi. Franco Citti in accappatoio (Jokanaan) a furia di rifiutare drinks viene afferrato, spogliato, cacciato in un bidone beckettiano. E lì, «Fateme uscì! O armeno, dateme da magnà!». Quando si attiva il testo, ove proliferano e serpeggiano le allucinazioni e le metafore, Carmelo dice anche le battute di altri. «Guarda la luna, non ti sembra una principessina circonfusa di veli?». Ma Erodiade, stizzosa: «No». Allora lui, con nasalità lascive e gesti suadenti: «Non pare una principessa abbigliata di bianco e viola, con un godet qui e una pince là, alcuni disturbi nervosi, un papà burbero ma di buon cuore, una zia con un passato galante?…». Qui Richard Strauss sarebbe ovviamente beato, raddoppierebbeo triplicherebbe la sua Salomè. E il divino Pavarotti: «Tu pure, principessa, nella tua fredda stanza, guardi le stelle, che brillano d’ amore, e di speranza»… Ma il travestito, dispettoso: «Macché». «Insomma, almeno una cortigiana che batte gli angiporti, naturalmente di Mitilene, in cerca di marinai non qualunque, solo del Caspio»… Però, ad ogni «Guarda meglio» di Erode, la caparbia Erodiade risponde polemicamente di no, finché sbotta come Wittgenstein: «La luna somiglia soltanto alla luna!». Eccellenti assemblages, subito dopo. Una Manon Lescaut con regìa allo scoperto di Carmelo stesso in prima fila e giacca da gelataio, e un microfono per trasmettere al cast consigli e insulti e versi di Francesco Gaeta e Salvatore Di Giacomo, forse cari a Benedetto Croce ma qui del tutto inservibili. Quando poi lui diventa Des Grieux, è incantevole che Carmelo sia solo, e affaccendato a caricare ben sei Manon, donne dai molti volti, ma strapazzate e malmesse, sulla canna di una sola bicicletta. Non pare una trovata fantastica, alla fine del primo tempo, una parodia guitta e simultanea delle opere più note, con la Traviata che tossisce ed Escamillo che manda baci alla folla, ma intanto Otello e Canio si contendono la Mimì per pugnalarla o strozzarla, e la Tosca viene trattenuta da Pinkerton mentre fa il salto. Però è geniale che nel finalissimo, tutti morti, i corpi vengano visitati da un vero cavallo da opera, condotto da un suo vetturino perplesso. L’ Edoardo II, capolavoro di Marlowe, diventava un vespaio di Earls e Lords intorno a un “duo” indaffarato a smontare un trono fatto di cassette da verdura, e trasformarlo in un lettone king size. Una scelta che coincideva con gli esperimenti coetanei di Peter Brook sul Teatro della Crudeltà. E nella Storia di Sawney Bean l’ innocente e abbondante verslibrismo dell’ autore-editore Roberto Lerici viene ricoperto e sopraffatto da fragori infernali, mentre le tante righe del testo vengono distribuite al pubblico dalla bravissima Lydia Mancinelli. Carmelo stesso butta il resto del testo in un viluppo di sipari che si aprono e chiudono fra luci lampeggianti e grammofoni in libertà. Con O sole mio cantato da Elvis Presley, e un Rosenkavalier – tormentone che ricomincia sempre più accelerato, gettando automaticamente gli astanti in deliquio. Furono felicemente numerosi e assai pensati, gli spettacoli riuscitissimi di Carmelo. Poi, per le Interviste impossibili, alla radio, gli chiesi di interpretare (appunto) Oscar Wilde. Lì facevo un cronista pecione che lo inseguiva di corsa in una stazione piena di fischi di treni. E alle domande più inesperte e balorde, così, lui poteva rispondere con le sentenze di Wilde più celebri. «Non esiste nessun peccato al mondo tranne la stupidità». «Se le classi inferiori non ci danno il buon esempio, si può sapere cosa ci stanno a fare?». «Un cinico sa il prezzo di ogni cosa e il valore di nessuna». «Essere naturali è una posa talmente complicata da tenere». «Adoro i piaceri semplici. Sono l’ ultimo baluardo della complessità». «Il solo fascino del passato è che, per fortuna, è appunto passato». …E le donne?… E l’ amore?… «Tutte le donne invecchiando diventano come le loro mamme: È la loro tragedia. Gli uomini invece no, e questa è la loro… Le donne rappresentano il trionfo della materia sopra la mente, così come gli uomini rappresentano il trionfo della mente sopra la morale… Nessuna donna può essere troppo precisa sulla sua età, o parrebbe una calcolatrice… La quantità di donne a Londra che flirta coi propri mariti è perfettamente scandalosa. Che brutta impressione: è come lavare i propri panni puliti in pubblico… Basta così, o ne volete ancora?». Sbuffi di vapore, fischi del treno. Citazioni convulse. Simone de Beauvoir: «Donna non si nasce, ma si diventa». Joseph Conrad: «Essere donna è tremendamente difficile, perché consiste nell’ aver a che fare con gli uomini». Voltaire: «Le donne somigliano alle banderuole: si fissano quando arrugginiscono». G. B. Shaw: «La volubilità delle donne che amo è uguagliata soltanto dall’ infernale costanza delle donne che amano me». Ivy ComptonBurnett: «Non credo che esista una donna come le altre, forse le altre non esistono, e se ci sono, sono talmente poche che non contano». Si avvicina un doganiere: «Cosa ha da dichiarare, Maestro?» «Solo il mio genio». E poi, dal treno che ormai sta partendo e si allontana sbuffando: «I buoni americani quando muoiono finiscono tutti a Parigi. Se qualcuno scompare, prima o poi ricompare a San Francisco!». Con Ludwig II di Baviera, Carmelo fu perfettamente onirico, fra Wagner e Richard Strauss e czardas anni Trenta di Ivor Novello. Tra Positivismoe Fiaba, tutta una fantasticheria sonnolenta sui ritrovati della moderna meccanica applicati ai castelli in aria bavaresi: cioè un’ anticipazione pratica di Disneyland. Con giudizi politici molto taglienti. Sui lombardi «che respingono un’ amministrazione austriaca perfetta, tutto in orario senza un granello di polvere e senza bisogno del duce». Sulla vergogna del 1866: «allearsi con Bismarck per togliere il Veneto alla patria di Bruckner e Mahler, e attaccarlo a quella di Mascagni!». Ma soprattutto Carmelo sospirava sonnolento. «È già mezzanotte? Non accenda la luce. S’ accomodi su quel cigno, ma se preferisce la renna, non faccia complimenti. Non rompa le uova di struzzo. E attenzione agli obelischi. È comodo? Mi dica pure». Rimanemmo col rimpianto dei film che non si riuscì a fare, per lo spavento dei produttori. Non solo un Super-Eliogabalo con lui svagatamente “crudele”, alla Artaud, in una romanità baraccona, e un Trio Lescano di mamme scatenate alle ultimissime mode e voghe degli anni Trenta. Con musiche di Sylvano Bussotti, magari cantate da Cathy Berberian. Soprattutto, un Principe costante, da Calderón de la Barca, con l’ ostinato eroe cattolico portoghese tutto d’ un pezzo fra le mondanità e seduzioni della Marrakesh contemporanea Mario Ceroli progettava dune desertiche di legno da imballaggio, nel teatrino di via Belsiana, forse con Luca Ronconi dubbioso. Carmelo voleva invece salire e scendere prima giallo e poi rosso o verde o blu tra le famose pozze dei tintori e conciatori a Fès, intrepido e sfidante sotto una massa di turisti fotografi. ALBERTO ARBASINO

TENGO FAMIGLIA

Tirare fuori dagli armadi l’insensata paccotiglia

che decenni e decenni armati ci hanno affidato

perché la si portasse, eredità meschina, nel malnato

secolo che già è in ambasce: il dono del tengo famiglia.

.

Si ruba senza pausa e si ritorna a rubare, deruba

l’asinello il bambinello, la cassetta l’elemosiniere alla vigilia.

Chè non vuoi mangiare? Chè ai miei figli darò una carruba?

Chè non vuoi, memento manicare, ricordar che tengo familia?

.

E si dissemina il cammino di eroi mancati, vicini alla santitade

di quello che avrebbero potuto fare, di quello che avrebbero potuto dire,

ma gli tocca nicchiare e il loro eroismo deve prendere altre strade

più sotterranee, più nascoste, più mimetiche, da imbosco a mai finire.

.

Non è che proprio ti adagi sullo scorrere invariato, è che ti siedi

e tracciato un percorso nella sabbia ami giocare pupo con la biglia

e se esistesse ancora il boia tu gli faresti, modestamente, da tirapiedi

e alla prima protesta tu, sborghesizzando: amici miei, tengo famiglia

.

Se rubi il pane

perché non hai di che vivere

e in galera vuoi andare

e questo e quello

e non c’è niente da fare

Io ti porgo una ringhiera

un balcone dove l’aurora vermiglia

ma se intraprendi a sonnecchiare

in bugigattoli ben riscaldati

a malmenare due poveri bistrattati

Cojoni

che giusto a grattarsi

son diventati buoni

con la scusa del “tengo famiglia”

ecco che intraprendo

il cammino dello sputazzo

al tuo onore che svendo

nel mercato dello schiamazzo.

                .

Se ti becco a titillare perché assai ti vale

con il ciglio aggrottato di chiunque ti somiglia

il grugno grasso e bavoso di un bel maiale

giustificandoti che in fondo tu tieni famiglia

.

Ti dico che me ne fotto

dei santi sacramenti

che potresti d’un botto

scodellarmi davanti

.

I Santi stessi quella rogna

non ti vorrebbero togliere

e se non si avvicinano e non lo sai cogliere

te lo dico io il perché: provano vergogna

.

Ed è vessillo comodo e di partito

usare a dare addosso al mondo intero

ma zitto zitto, muto muto, fare lo stesso sentiero

perché ne hai tanto e tanto di quell’appetito

.

Ed è bandiera comoda e di associazione

di nuclei di uomini falsamente casuali

che hanno colto tutti assieme l’occasione

per dare, loro porci, agli altri dei maiali

.

Forse è del primo uomo, di quello che dalla fanghiglia

primigenia se ne è sbucato fuori

e che ha assaggiato una fettina di dolori

di profferire a mano alzata: Signori, tengo famiglia

.

E allora rimani con il piede fesso

ben piantato in mezzo alla mota

ma riconosci almeno che fesso

sei anche tu e vota e svota

e impreca in chiesa (ma non ne esci),

della tua fase di protesta mai cresci.

.

Per il resto è tutto già scritto

fino a quando avrai chiuso le ciglia

ogni giorno non varierà il vitto.

sei da manuale: un tengo famiglia.