E. A. Poe, Annabel Lee

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It was many and many a year ago,
In a kingdom by the sea,
That a maiden there lived whom you may know
By the name of Annabel Lee;
And this maiden she lived with no other thought
Than to love and be loved by me.

I was a child and she was a child,
In this kingdom by the sea:
But we loved with a love that was more than love –
I and my Annabel Lee;
With a love that the winged seraphs of heaven
Coveted her and me.

And this was the reason that, long ago,
In this kingdom by the sea,
A wind blew out of a cloud, chilling
My beautiful Annabel Lee;
So that her high-born kinsmen came
And bore her away from me,
To shut her up in a sepulchre
In this kingdom by the sea.

The angels, not half so happy in heaven,
Went envying her and me –
Yes! that was the reason (as all men know,
In this kingdom by the sea)
That the wind came out of the cloud one night,
Chilling and killing my Annabel Lee.

But our love it was stronger by far than the love
Of those who were older than we –
Of many far wiser than we –
And neither the angels in heaven above,
Nor the demons down under the sea,
Can ever dissever my soul from the soul
Of the beautiful Annabel Lee;

For the moon never beams without bringing me dreams
Of the beautiful Annabel Lee;
And the stars never rise but I feel the bright eyes
Of the beautiful Annabel Lee;
And so, all the night-tide, I lie down by the side
Of my darling -my darling -my life and my bride,
In the sepulchre there by the sea –
In her tomb by the sounding sea.

BALTIMORA

Come oramai è mia personale tradizione “mi faccio” gli auguri riripubblicando questa mia poesia dedicata al mio illustre “compagno di compleanno”.

A E. A. Poe

Donne perdute lungo la banchina del porto di Baltimora,

le ho viste l’anno scorso, come se fosse adesso,

e danzavano bianche e pallide come le vele al vento

ma non c’era vento attorno, se non nel mio occhio stanco,

lungo la linea tagliente dell’orizzonte ferivo la palpebra

calante come una luna tuffata sotto l’abisso del gorgo,

se non nella mano che tremava, tremava stringendo l’altra mano perché non tremasse,

la parabola dei ciechi lungo le colline la notte e il giorno,

seguivano in fila i gesti informi della voce, quei suoni inutili

richiamati dalla cortesia della palude della gente di biacca

che si stendeva lungo tutta la banchina del porto di Baltimora

illudendosi di risalire o discendere fino all’oceano,

acqua stagnante.

Tra le carcasse degli incerti nomi

un volto consunto dalla fatica

ma non piagato

dal quotidiano scappellarsi al passante

è come se si fosse murato nello spazio dell’oceano

lasciando la città e la gente dall’altra parte,

ed ora, troppo avanti negli anni per rincorrere le onde,

si accomodava come in veranda,

aperto un piccolo spazio nel suo muro, una porta,

trascinato un barile pressappoco della sua età

– chi sarebbe stato capace di distinguere di quale vino?-,

e guardava, senza dover dire nulla agli sperduti,

soffiando fumo come un battello a vapore,

avrei voluto che balzasse giù dal suo barile,

tagliasse tra la folla, spartendola bianca e schiumosa,

perché potessi seguirlo, seguirlo tra questa gente

ancorarmi a lui come se fossi fuori uso, in avaria,

ma non c’era nulla che potesse spostarlo dal suo pilastro

vecchio eremita nel silenzio

che ci osservava come da un lampadario su di un vasto salone

ma senza crudeltà, senza rabbia o livore,

ci osservava in attesa che la sua nave approdasse e gettasse la gomena.

Donne perdute lungo la banchina del porto di Baltimora,

oscillano come una bandiera soggetta al mutare del vento,

ora pendono a destra, ora a sinistra,

ed io le seguo con lo sguardo senza saper proferire parola

e negli occhi rivedo il riflesso dei loro denti

e negli occhi rivedo come l’inclinazione d’una scala lunga e nera

e mille suoni, in lingue che l’uomo e la donna non hanno mai inteso

davvero

e mille suoni, in lingue che l’uomo e la donna hanno creduto di capire

vanamente

e misteri nascosti dove nessuno li saprà mai trovare

nascosti nel luogo più impensato: davanti a loro, posti bene alla luce del sole.

Eppure bastava così poco, bastava sedersi su una sedia logora

e stringere una mano nella penombra, in attesa del medico,

passando così le ore, parlare e parlare ancora, dire, dire,

invece di correre follemente e picchiare i pugni sulle tempie imprecando

buttare fogli all’aria, sporcare d’inchiostro le mani, il foglio, la scrivania,

correggere bozze ad ogni ora, gareggiare a incastri

sostituire a numeri parole, a parole numeri, a disegni parole, a parole parole,

come un automa, ma di quelli veri, non le scatole per ingannare i gonzi,

ma quale automa avrebbe sofferto quello che ho sofferto e soffro ancora?

Quale automa? Un automa creato da qualche artefice crudele,

un automa che non sarebbe mai servito allo scopo,

sempre distratto da un suono, da un ritmo rivelatore

che veniva da ovunque, dalle pareti esterne e interne al corpo,

da dietro la maschera che si insinuava anche nel giorno di festa,

nel momento dei bagordi estremi, quando crolla ogni cosa

come una casa decrepita e priva di vita, come un mondo senza destino,

un corpo accasciato su una poltrona nel terrore che nulla si ripeterà:

quei sussurri notturni sotto il portone non verranno ridetti e non sono stati detti,

questi chiari di luna ellenici,

no, sarà una illusione futura, ma di chi?, non ho idea, ma sento che si illuderà,

e poi una luce la getterà un cieco scrutando nel buio i sentieri indivisi,

ed io ora scopro che il bivio è una curva di un labirinto

e la via dalla quale si viene non è una via, ma un punto proiettato nello spazio,

un punto posto lungo quella curva che vediamo d’un tratto,

ma di tutto questo non farò menzione, non scriverò nulla, non lascerò traccia

troppo, troppo ho già messo sulla carta in questi anni di vagabondaggio,

in questi secoli di cammino lungo la riva del risonante mare,

voglio solo spingermi di nuovo là, in questa notte di ottobre,

anche se le gambe sono malferme, lo stomaco non regge

e la testa risuona ad ogni leggero movimento del mio corpo,

ma voglio tornare là, in questa notte d’ottobre

a vedere donne perdute lungo la banchina del porto di Baltimora,

forse tra loro, tra questi spettri della notte

che danzano a piedi nudi sulle acque

troverò anche il suo volto

pallido e disciolto

quel volto che vedevo reggersi debole come il suo sorriso

quando mi osservava dalla porta

quando lasciava, contro al mio volere, il letto per vedermi lavorare,

e restava in silenzio, mentre non potevo proferire una sola sillaba,

forse lo vedrò quel volto

forse la vedrò come se emergesse dalle acque del porto

con gli occhi chiusi e la bocca rasserenata

lontano dagli affanni e dagli artifici del laudano,

come se emergesse da una terra lontana, un’ isola,

da un regno in riva al mare.