Perdere tempo in questo

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(Ph: Josef Koudelka)

 

Cadaveri che incensano cadaveri

sopra catafalchi dorati,

tra giacche, doppipetti, alti papaveri,

funzionari autopremiati,

dovrei perdere tempo con questo

nei giorni che restano

dedicarmi al preventivo arresto

ai piedi che pestano

pavimenti e tappeti delicati

con fili di merda e sputo

intrecciati

sopra crinolini confezionati

di promesse e bugie,

fonti miracolose che la sete

di giusto e vero

dovrebbero infine calmare,

tra corpi adagiati in sete

a mani giunte

e cristi invocati

al momento del sospirone,

comitati, assemblee,

panacee eterne, zampirone

immenso contro zanzare

assassine,

corpi violati, fellationes

sotto tavoli ministeriali,

Gesù crocifisso tra latrones

che innalzano richiami,

latrones cattivi,

latrones faustiani,

dovrei perdere tempo con questo

e diotrie e polpastrelli,

dichiarazioni carpite a microfoni spenti

tranelli

di intercettazioni

d’anime che lasciano i corpi

prima del tempo

prima che siano morti

gli ultimi testimoni,

prima che siano sciolti

gli estremi suoni

di un disco forse sporco

e consumato dall’uso

ma che ancora reca il solco

chiaro e netto

un canto non concluso.

Immensità ?

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L’immensité by Gustave Courbet – 1869

 

Le stupidaggini di una scimmia

ripetute all’infinito

finiscono sempre per mutarsi

in altari di pietra

dove popoli interi fan vendemmia

di pensieri sparsi

spingendosi per trovare il rito

che allontani la tetra

ombra di quell’ animale fatale

che li attende, nel bene e nel male

Spezzò il pane…

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Spezzò il pane e disse

 

Nulla

 

Senza accordi e concordi

precordi del pollo arrosto,

transunstanziazione di se stesso

nella mistica del pollo,

senza ricordi dei primi tempi,

vagito di tanti anni,

accento,

gesti che sono accennati

al culmine di un momento,

gesti che si fermano a mezz’aria,

gesti di bocche spalancate

senza voler dare alcun lamento.

Di suo padre neppure manteneva il ricordo:

era morto prima che nascesse,

forse prima d’essere concepito

o forse qualche anno dopo, mah,

il ricordo comunque non c’era e qualche anno,

in più o in meno,

qualche anno era cosa da poco

ed aveva presto smesso di pensare a lui

come presto aveva smesso di recitare ogni preghiera,

almeno quelle,

disceso dalla scaletta non accennava

nessun Dio Salvi la Regina,

tramutato come fa qualche vecchia pia in Salve Regina,

tra l’inginocchiatoio e il fonte dell’acqua santa,

avendo più fede nei suoni che nel significato.

 

Non aveva ucciso nessuno,

almeno non aveva ucciso nessuno dal vero,

quando si uccidono ombre non hanno valore,

che siano ombre della mente o ombre su di un telo,

almeno così credeva,

eppure aveva questo istinto del vagabondaggio,

tentava di annotare ogni immagine

ma non sulla carta,

su una sottile linea di cellulosa e carne

certo che non l’avrebbe vista il giorno dopo,

e traguardava all’infinito ogni volto e paesaggio

con specchi che dessero riflessi come senza fine,

in biblioteche dai passaggi ovali

con neve di scherzo d’effetto,

soffitti che premevano sopra le teste

e sfondo completamente oscuro,

parallelismi di immagini, fissità contrapposte a movimenti,

non muoveva più nulla tutto d’un tratto,

gli bastava emergere dal buio

e fare un ghigno con un sigaro messo di traverso,

puntare un dito su un volto afferrato da una luce,

ma non aveva ucciso nessuno,

almeno così credeva,

e sfoderava riduzioni di se stesso, riproduzioni,

sfalsava i piani, una brocca poteva scivolare,

una figura spostarsi con un gesto e non trovare

-che portento-

più la sua posizione all’inizio del piano.

 

E vagava, vagava per il mondo,

sempre tentando di conciliare il prima con il dopo,

quello che voleva fare e quello che gli chiedevano,

fosse anche un attimo per riunire

quattro straccioni shakespeariani,

fuliggine in scene frammiste,

importa poco fosse Malta, il Marocco o tra i Dogi,

e Tiziano….

Tiziano era morto, pace all’anima sua,

requiescat ovunque sia e qualunque senso abbia,

requiescat come una faccia febbricitante sulla sabbia,

quando in bocca senti tutto quel sapore informe,

quando il pensiero svelando tutto alla fine si posa

capendo che, in fondo, Ade e Dioniso sono una sola cosa.

Tormentato al nord, perseguitato,

rifugiatosi al sud e poi scacciato,

se fosse stato semplice avrebbe affittato un mulino,

anzi una distesa di mulini di ferro

con luci e fumo,

benzina gocciolante,

grumo

di bianco che è sempre più a spessore,

è naturale,

sempre più a spessore di ogni altro colore.

 

Spezzo il pane e disse

 

Nulla

 

E brocca o piatto, bicchiere e posate,

tutto rovesciato d’un colpo,

con un frastuono da crepacuore,

un accidente

con riverberi infiniti sulle acque

che rischiavano, sembra incredibile, di stagnare,

un accidente

ancora più grande di quando videro

van der Goes

al tempo di massima fioritura del giglio,

e certo serpeggiò un mormorio tra la gente,

e certo qualcuno almeno in cuor suo svenne,

un mutamento e più non era lo stesso

come provocò poi quel malefico portento

-quello sradicava come l’altro seminava-

che ti attrasse e avresti tentato

di ritrarre se ti avessero mai permesso un giorno,

in qualche modo, in qualche tempo,

di ritrarre, almeno avresti provato,

magari in un modo nuovo,

fuori dai giochi di ombre, dai fasci di luce,

ritratto in un terzo modo

che spezzasse tra illimitato e delimitato,

tra immobile e mobile,

il binomio

in un modo che solo nella mente può essere concepito,

una sorta di nuova rivelazione

come il ricordo di un volto

il volto del padre.

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Liberarsi?

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Io non trasmetto nulla, non comunico,

resto rinchiuso nella mia finestra

osservo la lotta contro il pensiero unico

la folla che lentamente si addestra

e scorgo che pure questo oramai è unico

pensiero

quasi che non vi fosse differenza reale

ma solo la decisione tra questo e quel male,

sentiero

spinoso ma solo fino ad una certa altezza,

punico

nemico già abbattuto, fantasma senza testa,

così se dovessi invocare un cambio davvero

griderei a tutta forza: liberiamoci dal pensiero.

CONFINI

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A steel worker balances on a girder during the construction of the Empire State Building in New York City, 1931

 

Son dittatore di me stesso,

boia, custode e giardiniere,

legislatore, ladro, ossesso,

controllore e contrabbandiere

 

Mi spintono per la strada

mi trattengo dentro casa

son quel che a me bada

ch’ogni piano infine sfasa

 

Son un metallo, un metallo di vetro

e ovunque mi scaldo e raffreddo

i miei confini me li porto dietro

CICLOPE

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(trovata sul web)

 

Chi mi vede a distanza pensa ad un ciclope,

un ciclope furioso e in agguato,

camminando lungo il sentiero di ghiaia alberato

la circonvallazione cittadina

vede solo, per quanto si sforzi, quel poco

che può vedere (c’è scarsa illuminazione)

vede quell’occhio tremendo e di fuoco

che avvampa e poi si richiude piano

e non capisce e si interroga, quasi immobile

perché non sa che è solo il mio toscano

con attaccato un corpo ben più ignobile

proporzionato, comune, umano.

Destini

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THE ALLEGORY OF FAITH by Johannes Vermeer, detail

 

‘sta cazzo di penisola

buttata come a scherzo

tra quattro onde smarrite

tra bengodi e malvivi

arcipelaghi fatti d’un isola

sola e solitaria. Le vite

son giocate a dadi: al terzo

classificato una cicogna

che è poi l’uccel di gogna,

la culla dal piede sciancato.

 

‘sta cazzo di penisola,

vomitata lungamente

tra valli e monti e pianure,

popolate dal serpente

dal gallo e dai pastori

che non seguono più scie

e rinunciano alle cure

perché non serve a niente

aspettare per dare il cambio

La staffetta è morta,

il testimone caduto

nel baule a far ruota di scorta.

 

‘sta cazzo di penisola

che più odio e più amo,

che non posso levarmi

da sotto i piedi, il ramo

dove fecero quel nido

che mi ha cresciuto

e dove, per quanto spiccare

il volo c’è dato dai secoli

mi dovranno infine interrare

nudo e muto.

Sogna (Las Meninas)

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Sogna
Di dame di corte, di infante e di nane
Sogna
Di specchi, di stanze infinite e di tele

Essere dai molti secoli
che infinitamente e dunque adesso
stupisci e trasecoli
di sognare sempre di te stesso
che sogni e l’uomo e il luogo
e il volto che t’osserva
perché è il sogno che sfogo
dona e poi ti conserva

Sogna
Di dame di corte, di infante e di nane
Sogna
Di specchi, di stanze indefinite e di tele

E quella pausa che nelle notti
a me, sciagurato, pare il mio sonno oscuro
per te è l’istante nel quale lotti
con quel tuo corpo da sempre stanco e duro
per poi sprofondare nello speglio
che rigetta opposta immagine a quella data
Io nel cieco sonno quanto tu sveglio:
ti guardi attorno in una stanza dimenticata

Sogna
Di dame di corte, di infante e di nane
Sogna
Di specchi, di stanze smarrite e di tele

Mistero senza possibilità di svelamento
quello che sogni che egli dipinga
e solo un tuo nuovo sogno, oh portento,
potrebbe fare che occhio si spinga
all’altro lato della tela, a nuove viste
ma forse una duplice incubazione
mi hai concesso: è chi da ora assiste
che quasi viene ritratto in azione

Sogna
Di dame di corte, di infante e di nane
Sogna
Di specchi, di stanze specchiate e di tele

Non di risposta necessito e bisogno
anche se un dubbio mi è vicino:
tutto ciò che precede il tuo sogno
è realtà o è gioco come di bambino?
e anche la tua veglia è una menzogna
perché tu stesso che credi di sognarti
sei qualcosa che un altro per te sogna
e da tutto il sonno mai puoi separarti?

Sogna
Di dame di corte, di infante e di nane
Sogna
Di specchi, di stanze specchiate e di tele

Sogna, essere divino, Sogna Cane
Sogna e del sogno dispiega le vele
Di dame di corte, di infante e di nane
Di specchi, di stanze sognate e di tele
Sogna di noi e di chi c’ha preceduto
Di chi pare svanito, ma non è mai nato
Sogna di finzioni, di attimi, del minuto
Sogna dal luogo indicibile che t’ha celato

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NELLA FOSSA COMUNE DEI SECOLI

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Photo: I nuovi mostri, 1977 (Episodio: L’elogio funebre) A. Sordi, E. Scola.

                                                                                     (a G. Brassens)

Sono un gigante,
sono una montagna,
la mia carne è un colosso
detonato da me stesso,
schizzato nell’aria
per conficcarsi nella pelle
di chi mi è stato appresso,
per conficcarsi e germinare
nei corpi pensieri, idee.
E già vedo quelli che attardati,
giunti ai limiti della vecchiaia,
d’un tratto saranno risvegliati
tutti assieme
e diranno
era un poeta
era un profeta
quel che ha scritto e predetto
è avvenuto, guardate, ho letto
questo, ho letto
quello,
e verrete fuori
dalle vostre bare da vivi,
dalle tane faticosamente
assestate,
verrete fuori per cercare,
tutti assieme, convocati
come al suono di una tromba,
verrete fuori per cercare
i miei resti, la mia tomba.
Fausto, il vecchio becchino,
scuoterà le vostre membra
quasi fino al pianto disperato.
Non c’è più: dissotterrato
dal misero pezzo di terreno
nella fossa comune dei secoli
è stato infine collocato.
“Presto una vanga,
un piede di porco,
Cristo, un martello”
E tutti sarete in gruppo
attorno alla fossa,
a schiantare il coperchio,
a schiantare la mia cassa.
Cercando con le mani
chini
tra le vecchie ossa.
E troverete un corpo
come mummificato
“è Dio che vuole
è Dio che l’ha lasciato”
Alla venerazione
isserete le membra,
bacerete le vesti
contendendovi a gara
qualcosa dei resti
E l’idiota del paese
mollando la presa
cadrà con il culo sul mio teschio
schiantandolo
riempiendosi dei frammenti
di quel cranio tanto ricercato.
Piangerà affranto,
il testone reclinato,
mentre il medico di paese
compirà la facile operazione
“ché volevo pure io
ché volevo pure io andare
alla processione
volevo portare il poeta
all’altare”
Ed il corteo andrà furioso
fino alle rovine della chiesa
di quel posto
e sulle quattro assi
infine deposto
sarà tutto un borbottare
di preghiere incerte
un ricordare inni e salmi
male
ed io, ovunque io sia,
riderò
nel vedere le estese
veglie e le lodi
fatte ai resti ammuffiti
del pedofilo del paese
che venne un giorno,
tanti anni indietro,
a farmi compagnia
nella fossa comune dei secoli.