La grande bellezza ovvero dove si scopre che Fellini rompeva meno le palle, Totò è morto e Agu’ era ergonomica.

Mastroianni

La cosa buona di vedere fuori tempo massimo un film che ha suscitato discussioni è che non ci si infila in nessun ginepraio. L’altro giorno ho avuto occasione di vedere La Grande Bellezza, premio Oscar come migliore film straniero. Sentivo mesi e mesi or sono che si trattava di un figlioccio de La Dolce Vita, a mio parere non ha nulla a che vedere. Trovo tre padri putativi principali

8 1/2  Una certa ossessione per tentare di fare il visionario e anche una certa tendenza ad andare avanti a spinte, pizzichi e bocconi

Signori si nasce: Servillo è praticamente Totò nei panni del principe Zazzà

Dove vai in vacanza (episodio A. Sordi – A. Longhi): la critica al mondo artistico ricorda tremendamente Sordi e la moglie Agu’ spaparanzata sulla sedia alla Biennale

Il film è disomogeneo. La prima parte, difficile da digerire, è una sorta di parkinsoniana incapacità a tenere quella cazzo di telecamera ferma, è come se avessero lardellato la cinepresa, scivola, sguscia, sopra, sotto, di lato, indietro… una autentica, fastidiosa, noiosa giostra ripetitiva. La seconda parte vede una telecamera spesso ferma. Scelta del regista? Non saprei. Il sospetto è che tutto questo sfoggio di movimenti sia per coprire l’assenza di idee concrete sul come usare al meglio l’ambiente salvo poi ricorrere, come dirò poi, alle cartoline da spot Barilla. Niente di solido.

La sceneggiatura è ridicola. Da una parte pare un film degli anni ’70 (rieccoci a Sordi e a Moretti) con delle critiche al mondo degli intellettuali/intellettualoidi talmente datate da non graffiare praticamente mai, l’impressione è che sia il parto di un provincialismo capitolino e che vada bene ad un pubblico provinciale e un po’ burino. Le citazioni paiono dovere molto a certe pagine internet e in generale non si può certo parlare di grandi concetti o frasi notevoli. Il meglio è all’inizio con Celine, salvo poi chiedersi lungo il film: che cazzo ha a spartire Celine con questa tronfia pagliacciata?

Mischiare i toni da commediola birichina “ti chiavasse, ti chiavasse” a pseudo riflessioni esistenziali (madonna Servillo, ma al cinema che ti capita? Tanto bravo a teatro tanto scarso al cinema) rende il tutto non tanto una sorta di turbinio dell’esistenza, quanto un manualetto perbenista e, come penso sia stato già detto, una sorta di figlio di Dagospia. Tra scuregge (mentali), nani, cardinali, puttane e schiavi misogini le due ore arrancano che è un dispiacere.

La fotografia, dicevano tanto della fotografia, ora, tranne un ebete (o un genio) chiunque con i mezzi a disposizione è in grado di rendere “maggggica” Roma, in particolare quando mi fai carrellate in angolini semibui o in gallerie con monumenti, la sensazione del touring club Italia è persistente. L’Oscar non ho capito da cosa sia scaturito, sarà che la cultura generale è talmente bassa da ritenere (da noi come dagli amici d’oltre Oceano) un paio di immaginette da cartolina e 20 frasi da esistenzialismo ricchione (fag) condite da una pungente (‘nsomma) critica alle manie da intellettuali della fauna capitolina un capolavoro mai visto… ecco personalmente non ho mai visto il capolavoro, in più di due ore non riesco a salvare praticamente nulla della sceneggiatura. Nulla della recitazione (Lillo di Lillo e Greg, Verdone o Servillo che recitano praticamente alla pari e perfino la Ferilli… dovrebbe già far sorgere un sospetto). Fotografia da catalogo e in certi momenti si aspetta che venga fuori il prezzo di questo o quel arredo e il numero per chiamare Gep. Ho trovato carina (ma giusto carina) la scenettina del funerale e quella del bacio della mano della Santa, ma penso fosse più la stanchezza e la sensazione che questa paccottiglia volgesse al termine.

Avevano ragione quanti sostenenevano che in fondo è uno spot di Roma. Una Roma identica a New York, Parigi, Madrid o quello che si voglia, solo che c’ha un rudere vista attico e qualche statua ignuda. La critica sociale è ridicola e talmente datata da far pensare che sia una parodia di una critica sociale (e poi a che serve? Datemi un film, non un manualetto di conversazione spiritosella). Cagata planetaria. Si rimanda ai tre padri putativi per avere gli elementi di questo film meglio messi in scena e più gradevoli, Zazzà batte Servillo, Sordi e Agu’ battono testate agli acquedotti o impiastricciate di tele, 8 1/2 dura leggermente meno e poi le pippe sono esposte con tono da maramaldo.

ORIANA FALLACI INTERVISTA IL PRINCIPE DE CURTIS (L’Europeo, 1963)

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Non si piace, dice. Ma si vuole bene da sé. È altezza imperiale, e tante altre cose. Ma deve tutto al personaggio di Totò. Si sarebbe pure fatto frate, se non ci fosse il piccolo impedimento della castità. Tra tristezze e una grande ironia, il più grande comico italiano si racconta.

ORIANA FALLACI. Principe, Le porgo i miei rispetti e i miei omaggi… Lei è proprio principe, vero? (Sorride, un po’ imbarazzata, al gentiluomo dall’aria nobile e triste, che la ossequia da alcuni minuti come se fosse l’imperatrice Teodora).
SUA ALTEZZA IMPERIALE IL PRINCIPE ANTONIO DE CURTIS (TOTÒ). Signorina mia, vuol scherzare? Non crederà mica anche lei che i ritratti degli antenati li ho presi dagli antiquari? I titoli non si comprano, li danno i sovrani. Vi sono due specie di titoli: quelli nativi, i quali vengono da famiglie che hanno regnato, e quelli dativi, i quali vengono dati dal re a qualcuno che ha fatto qualcosa… Il mio è nativo. E ce l’ho dal giorno in cui venni al mondo: come mio padre, mio nonno, mio bisnonno, mio trisnonno, su su fino al 362 avanti Cristo. Sì, questo sul mio anello è lo stemma. Come vede, sullo stemma sono incise la data, 362 a.C., l’araba fenice che guarda il sole nascente sotto le colonne di Ercole, la mezzaluna con tre stelle che sarebbe l’Oriente… Il volto bizantino ce l’ha. Me l’hanno già detto. Ricorda quelli di certi mosaici a Ravenna. Me l’hanno già detto. Vengo da Bisanzio, per forza. Signorina mia, sono altezza imperiale, son principe e anche molte altre cose: conte palatino, cavaliere del Sacro Romano Impero, ufficiale della Corona d’Italia, cavaliere della Gran Croce dell’Ordine di Sant’Agata e San Marino, marchese di Tertiveri, questo però non lo uso. (Con lo stesso tono di voce) Dick, il mio cane lupo, era invece barone. Peppe, il mio cane attuale, è visconte. Visconte di Lavandù. Gennaro, il mio pappagallo, è cavaliere. Li ho investiti io. Caligola non fece senatore il suo cavallo? Troppo giusto, però non deve dirlo. Altrimenti concludo che non gliene importa, d’essere altezza imperiale. Signorina mia, me ne importa: quel tanto che basta a onorare gli avi, la famiglia che ha avuto questa roba… Sarebbe come dire che il pronipote di Marconi non ci tiene a esser pronipote di Marconi. Ci tiene. Ma il mio più bel titolo resta Totò. Con l’altezza imperiale io non ci ho fatto nemmeno un uovo al tegamino, con Totò ci mangio dall’ età di vent’anni. Mi spiego?

Ma le altre altezze imperiali e non come La trattano?
All’ inizio mi snobbavano, si capisce. Poiché lavoro, poiché faccio il pagliaccio, mi guardavano con la puzza al naso. A ogni modo, sa, io me ne infischio di come mi trattano: perché il mio titolo è più forte del loro. E poi su queste cose la penso come lo spazzino della mia poesia ‘A livella: quella del marchese che è seppellito accanto allo spazzino e vuol mandarlo via. «Marche’ , mme so’ scucciato / T’o vvuo’ mettere ‘ncapo…’int ‘a cervella/ che staje malato ancora’ e fantasia?/ ‘morte ‘o ssaje ched’ è? È ‘na livella / Nu rre, nu magistrato, nu grand
‘omme / trasenno stu canciello ha fatt’ o punto / e ha perso tutto: ‘a vita e pure ‘o nomme. / Perciò stamme a senti’ , nun fa ‘o restivo: / suppuorteme vicino che te ‘mporta? / Sti’ ppagliacciate ‘e ffanno solo ‘e vive / Nuje simmo serie, appartenimmo ‘a morte». Dico bene?

Lei dice sempre bene. E poi Lei è un divo, un artista.

Macché artista: venditore di chiacchiere. Un falegname vale più di noi artisti: almeno fabbrica un tavolino che rimane nei secoli. Ma noi, dica, che facciamo? Quanto duriamo? Al massimo, se abbiamo molto successo, una generazione. Se chiedo al mio nipotino chi era Petrolini, chi era Zacconi, risponde boh!

tumblr_li68x02YCD1qaqeotLa Sua modestia mi lascia smarrita. Lei sta recitando.
Io le giuro sulla tomba di mia madre, l’ unica cosa cara che ho al mondo, che sono sincero: non recito. Sto per confessarmi, anzi, come non ho mai fatto con nessuno. Io sono un misantropo, un timido, pensi che quando entro in un ristorante abbasso gli occhi perché mi vergogno che la gente mi guardi, e non ho mai amato rivelare chi sono. Stavolta ci provo, però deve credermi: sennò tanto vale andarci a bere un caffè. Signorina, io recito solo nei miei brutti film.

E allora mi dica: perché recita in quei brutti film?
Signorina mia: io non prendo i 100, i 70, i 50 milioni di lire che prendono gli altri. E ciò di proposito, perché se sento dire che il tale o la tale hanno preso 600 milioni per la parte in un film, resto inorridito, schifato. Io non ho mai voluto prendere grandi cifre perché ho sempre pensato che il produttore deve guadagnare, col film. Se non guadagna, fallisce. Se fallisce, io non faccio più film. E se un po’ alla volta falliscono un po’ tutti, dopo che faccio? I film dove recito io son commerciali, son filmetti arraffati, destinati alle sale di seconda visione, e costano poco: anche come film. Quando son lì, non posso mica dire no, questo io non lo fo, non mi piace, non va… Sarebbe scorretto, scortese… Senza contare che io non posso vivere senza far nulla: se vogliono farmi morire, mi tolgano quel divertimento che si chiama lavoro e son morto. Poi sa: la vita costa, io mantengo 25 persone, 220 cani… I cani costano…

Duecentoventi cani?!? E perché? Che se ne fa di 220 cani?!
Me ne faccio, signorina mia, che un cane val più di un cristiano. Lei lo picchia e lui le è affezionato l’istesso, non gli dà da mangiare e lui le vuole bene l’istesso, lo abbandona e lui le è fedele l’istesso. Il cane è nu signore, tutto il contrario dell’ uomo.

Lei non ha una gran stima degli uomini. Una buona opinione del Suo prossimo. E forse non ha nemmeno molti amici.
No. No. No! Io mangio più volentieri con un cane che con un uomo. Di amici… ne avrò due, forse. Sì, due ne ho: il conte Paolo Gaetani e il conte Fabrizio Sarazani. A parte il titolo, due che lavorano, come me: umili operai, come me. Perché vede: quella mia battuta «siamo uomini o caporali» non è affatto un gioco. Il mondo io lo divido così, in uomini e caporali. E più vado avanti, più scopro che di caporali ce ne son tanti, di uomini ce ne sono pochissimi.

E quando nacque questo Suo odio per i caporali, principe?
Sotto le armi, con un caporale di Alessandria che nella vita faceva lo spazzino. Caporali, vede, son quelli che voglion essere capi. C’è un partito e sono capi. C’è la guerra e sono capi. C’è la pace e sono capi. Sempre gli stessi. Io odio i capi come le dittature, le botte, la malacreanza, la sciatteria nel vestire, la villania nel parlare e mangiare, la mancanza di puntualità, la mancanza di disciplina, l’adulazione, i ringraziamenti… Quelli, sa: sempre meglio dell’ingratitudine… All’ingratitudine io ci sono abituato e la accetto: con divertimento. Io non mi arrabbio mai per l’ingratitudine. Una volta feci scarcerare un ladro di polli che aveva rubato il pollo, diceva, per fare il brodo alla figlia tubercolotica. I ladri di polli mi son sempre rimasti simpatici, anche se non hanno la figlia tubercolotica: così chiamai il mio avvocato e lo feci scarcera’. Bene. Sa cosa fece? Uscì e rubò la valigia dell’avvocato. Non è divertente? Per me, sì. Per Lei, meno: suppongo. Anche per me. Un’altra volta avevo un amico: un giornalista. Veniva sempre a mangiare da me, mattina e sera, ed era proprio un amico, non un caporale. Mi chiese in prestito una macchina da scrivere e io gliela comprai. Nuova nuova. Lui disse grazie, andò a casa con la sua macchina e la inaugurò scrivendo un articolo contro di me. L’articolo più feroce che mai sia stato scritto sopra di me: il più crudele, il più cattivo. Divertente, no? Per me, sì, per Lei, un po’ meno. Anche per me. E, in questo caso, più che divertente: bello. Pensi che pena, che mancanza di dignità, se avesse inaugurato la macchina scrivendo bene di me. Infatti il giorno dopo tornò a mangiare e ci ridemmo su.

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Principe: io non La ho mai vista ridere. A parte il fatto che esser triste è la legge dei comici, io temo che Lei abbia sempre riso pochissimo: che non conosca il sapore di una bella risata.
Pochissimo, niente. Io non rido, sorrido. E, anche quello, raramente. Sorrido a lei, per esempio, perché è una donna: non si può mica parlare a una donna con il musone. Però vede: non è esatto nemmeno dire che io sia triste: son calmo, privo di ansia. Io l’ansia non la conosco. Deve influire, in questo, il mio residuo di sangue orientale, bizantino. Non so… starei ore e ore fermo a guardare il cielo, la luna. Io amo la luna, assai più del sole. Amo la notte, le strade vuote, morte, la campagna buia, con le ombre, i fruscii, le rane che fanno qua qua, l’eleganza tetra della notte. È bella la notte: bella quanto il giorno è volgare. Il giorno… che schifo! Le automobili, gli spazzini, i camion, la luce, la gente… che schifo! Io amo tutto ciò che è scuro, tranquillo, senza rumore. La risata fa rumore. Come il giorno.

Lei è un animale notturno, lo so: non va a letto prima dell’alba e si sveglia quando il sole è già alto. Ma come passa la notte?
Nulla e tante cose. Ora le spiego. La servitù va a dormire alle 11. Franca, mia moglie, resta con me fino alle 2: mi parla, mi legge i giornali perché come lei sa io son mezzo cieco… Poi anche lei va a dormire e io resto solo. Giro per la casa, sto seduto, penso, io penso molto, mi affaccio alla finestra, vado in cucina a controllare che il gas sia chiuso, che le valvole della luce elettrica siano a posto, spengo le cicche perché ho sempre paura dell’incendio, vuoto i portacenere perché non sopporto l’odore delle cicche… E poi, siccome ho una radio che prende tutte le stazioni e in più la radio marina, mi metto lì e mi sento tutti i discorsi che si fanno le navi, i telegrammi dei pescherecci, «Partito da Gibilterra, caricato 6 quintali di banane», e ci trovo l’ alba. Ridicolo, eh? Una scena da uomo ridicolo.

No: una scena da uomo solo. Lei dev’essere un uomo terribilmente solo, principe. Solitario e solo.
Molto solo: non terribilmente solo. Perché io amo esser solo. Ho bisogno di essere solo: per contemplare, per pensare… A volte mi danno noia perfino le persone che amo: mia figlia, mia moglie… E, quando accade, zitto zitto, mi alzo e vado in camera mia. Sì, è difficile viver con me: questo è un rimprovero che le mie compagne mi hanno sempre rivolto, che all’ inizio mi rivolgeva anche Franca. Ora Franca vi si è assuefatta, trova questa vita normale sebbene sia giovanissima. Pensi: ha solo 32 anni… Prima invece… La capivo, sa? Capivo che le sarebbe piaciuto andare nei posti, nei night. Ma a me non piace, non è mai piaciuto. Io, quando vedo quel divertimento falso non posso fare a meno di pensare che dietro a ciascuna di quelle persone v’è un dramma: il pianista magari ha le scarpe rotte, l’industriale ha le cambiali che scadono, l’entraineuse ha il figlio ammalato… Gliel’ho detto: sono un misantropo, la base della mia vita è la casa. La casa, per me, è una fortezza, quasi una persona. Quando vi entro la saluto sempre come una persona: «Buonasera, casa». Oggi, per esempio, Franca è a Lugano e in casa son solo. Be’: ci sto benissimo. Sì, è molto difficile viver con me. Eppure, matrimoni a parte, non ha mai fatto lo scapolo.

La sua casa è stata vuota ben poco, e La si è sempre vista a braccetto di splendide donne.
Poco, guardi, poco: in un modo o nell’altro son stato sempre accoppiato, pardon, accompagnato. Non posso stare, io, senza una donna. Prima, quando viaggiavo senza una donna, portavo sempre con me una vestaglia femminile e un paio di scarpine col tacco. Sempre. Così, prima di andare a letto, appendevo la vestaglia accanto alla mia, mettevo le scarpine accanto alle mie, e mi sembrava di aver la donna. Che vuol farci: amo troppo le donne. Sarà perché sono meridionale, sarà perché odio gli uomini: ma le donne, secondo me, sono la cosa più bella che ha inventato il Signore. Io le amo tanto, le donne, che riesco perfino a non essere geloso. Tanto a che serve esser geloso. Se una donna ti vuol bene, è felice. Se non ti vuol bene, ne prendi un’altra. Sì, lo so cosa pensa. Che dalle mie canzoni risulta tutto il contrario. Ma quelle cose si scrivon così perché fanno comodo…

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E Lei, principe, sa esser fedele?
Ora sì. Prima no. Ma per l’uomo è diverso. L’uomo è poligamo. Ha mai visto cento pecore e cento montoni, dieci galli e dieci galline? Io ho sempre visto cento pecore e un montone, dieci galline e un gallo. Se fossi musulmano… Dica: ma come fanno quegli uomini cui non piacciono le donne? Io non li capisco. Io, quando dicono sì, quello è, no, quello ci fa ma non è, mi sento malato. Cielo. Che schifezza! Ma come fanno?! Lei lo sa?

Giuro di no, principe. Giuro di no.
Senta: quand’ero soldato, nella prima guerra mondiale, mandarono il mio reggimento sul fronte francese e ci dettero a tutti un coltello. In treno chiesi al sergente: «Sergente, permette, a che serve u’ curtiello?». E lui: «Ai marocchini, soldato. Devi sempre portarlo con te perché là ci stanno i marocchini i quali fanno certi servizi». Gesù! Mi prese tanta paura che mi sentii male. Aspirai lo zolfo di tutti i fiammiferi del reggimento e mi sentii male. Così svenni e mi feci ricoverare in ospedale. Signorina mia… io la penso così. Forse son rimasto all’antica, ma la penso così.

Vuol dire, principe, che la Sua epoca non La interessa? Che ci si sente a disagio?
Esattamente, signorina mia. In questa epoca io ci vivo per sbaglio. Pensi che non sono mai salito in aereo: in materia di aeronautica, sono rimasto ai progetti di Leonardo da Vinci. Non concepisco i mezzi veloci: viaggiare svelti, a che serve? Io ho l’automobile ma tengo un autista pieno di figli: così pensa alla pelle e non corre. Andiamo pianissimo, non superiamo mai i 40 all’ora, non prendiamo mai l’autostrada. Capisce bene che a me piacerebbe avere una carrozza, un cavallo: per dargli lo zuccherino, sa, le manate sul popò… E se non lo tengo è perché non posso andare in carrozza, perché mi sfotterebbero. Cosa dice? Viaggiare? Che m’importa viaggiare? Un po’ più bianchi, un po’ più neri, un po’ più freddi, un po’ più caldi, gli uomini son tutti uguali, i caporali son tutti uguali.

Chissà che fastidio, allora, quando Sua moglie Le legge degli astronauti e delle cosmonavi…
Disinteresse e fastidio. Ma via! Le pare giusto andare da Roma a Napoli in un’ora e mezzo? Pensi che bellezza quando ci si metteva ben 7 ore, una notte intera col vagone letto! La luna, la luna! Signorina mia, in quella gente io non vedo nemmeno il coraggio. Ad andar sulla luna con l’aeroplano, quale coraggio mi ci vuole? Forse posso difendermi dall’ aeroplano? Farci a cazzotti? Sarebbe come dire che mi difendo dal 13, dal 17, dal gatto nero, dalla coppia di monache, dalla gobba, dalla civetta, dal sale che cade, dall’olio che si versa, dallo specchio che si rompe, dal viola… Non so se ha capito che son superstizioso.

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No, principe.
Ho la testa dura.

Dica: è superstizioso?
Maledettamente superstizioso. Io, quando è martedì e venerdì, 13 o 17, può cadere il mondo: mi chiudo in casa.

Perché, principe? Ha paura di morire?
No, di morire no. La morte è una cosa naturale e averne paura è da fessi. Io, la prima cosa che ho fatto quando ho guadagnato nu poco di soldi, è stato comprarmi una cappella a Napoli: per andarci ad abitare da morto. C’è già la tomba e sopra c’ è incisa già la data di nascita e il nome. Il giorno della morte è in bianco. No, non mi importa morire. Mi importa, ecco, invecchiare. Quello proprio mi disturba, mi secca. Sapesse che dramma sentirsi giovani e poi guardarsi allo specchio, vedersi un volto pieno di rughe, una testa di capelli grigi… Gesù! Che schifezza! Cosa dice?! Maturità?! No, no, bella mia: lei non mi incanta coi discorsi sulla maturità. Io vorrei essere immaturo e aver 18 anni. Che dice?! Povertà?! No, no: io me ne infischio della povertà. Io vorrei essere povero e aver 16 anni. Macché 16! Quindici. Tredici. Nove!

Dica, principe: ma Lei, quando invoca i santi, lo fa per abitudine o per fede? Insomma, Lei è religioso o no?
Religioso?! Religiosissimo! Vado a messa, mi comunico, e ci credo. Pensi che volevo fare il prete, da giovane… Ho studiato, da prete. E le dico di più: se i frati potessero avere le donne, mi farei subito frate, e sarei un ottimo frate. Non bevo, non bestemmio, non sono geloso, i dolci non li mangio mai, non conosco le carte… Infatti abbandonai l’idea di diventar prete proprio quando scappai con una canzonettista, a vent’anni. Ma che ci vuol fare: io, quell’affare della castità, non lo capisco. Lo trovo così disumano, innaturale. Il cielo, tuttavia, guai a chi me lo tocca.

È dunque per questa religiosità che ha preso tanto filosoficamente la disgrazia degli occhi? Mi accorgo ora che non mi ha mai parlato degli occhi: che sono molto ammalati, lo so.

Per raziocinio, direi. Io sono un uomo molto logico, vede. Sono un ragionatore. Non per nulla vengo da una città di avvocati, credo anzi che sarei stato un meraviglioso avvocato. E secondo logica, dico: stabilito che le disgrazie sono fatte per gli uomini, perché arrabbiarsi contro le disgrazie? Sarebbe come arrabbiarsi perché piove, o perché c’ è il sole, o perché si muore. La morte esiste, la pioggia esiste, la cecità esiste: e ciò che esiste va accettato. Disperarsi a che serve? A vederci meglio? Bisogna adattarsi: prima per esempio scrivevo a mano, ora detto al magnetofono. Prima leggevo molto. Ora mi faccio leggere. E poi proprio cieco non sono: da un occhio, sì, non vedo quasi nulla, ma dall’altro vedo la periferia. Cioè, se mi metto di profilo, io frego l’occhio e la vedo come se stessi di faccia. Posso anche recitare e, infatti, vede: continuo a lavorare, lavoro. Né questo mi rende infelice. Signorina mia, ciascuno ha da portare una croce e la felicità, creda a me, non esiste. L’ho scritto anche in una poesia: «Felicità: vurria sapé che d’è / chesta parola. Vurria sapé che vvo’ significà». Forse vi sono momentini minuscolini di felicità, e sono quelli durante i quali si dimenticano le cose brutte. La felicità, signorina mia, è fatta di attimi di dimenticanza.

E quando recita, non Le capita di essere un pochino felice? A vederLa si direbbe di sì.
Quella non è felicità, è un’altra cosa: che non so spiegare. Recitare, vede, per me è come una droga. Meglio: un ossigeno. E se lei tenta di intervistarmi su questo, non ne ricava risposta. Per esempio, se mi chiede: come fa a esser tanto snodabile? Io le rispondo: non lo so. Non sono mai stato ginnasta, l’ unico sport che ho praticato è stato il ciclismo: quand’ero ragazzo. Ciclismo!… Andavo in bicicletta. Se lei mi chiede: come fa a far le capriole, ad arrampicarsi sui muri come una mosca? Io le rispondo non so: dicono che dipenda dai muscoli allungati, quindi flessibili. Ma cosa voglia dire, boh! Se lei mi chiede: come fa a inventare quelle espressioni buffe, quelle smorfie? Io le rispondo non lo so. Non è una disciplina, non è uno studio. È un istinto. Una roba che succede da sé, quasi indipendentemente dalla mia volontà. Sicché è inutile che i critici mi rimproverino perché faccio sempre le medesime cose da decine di anni, perché sono sempre lo stesso. Le medesime cose non le faccio: sono passato con disinvoltura dalla commedia dell’ arte alla prosa, all’operetta, al varietà, al cinema, alla rivista, alle canzoni, e ora giro un film, Il comandante, che è un film serio: quindi diverso. Ma che io sia quello e non altro, non v’è dubbio. Perché non sono io che comando la mia faccia, è la mia faccia che comanda me.

totòPrincipe, posso farLe una domanda?
Prego, si accomodi.

Ecco: ma a Lei… a Lei piace Totò?
Le rispondo una cosa che non ho mai detto a nessuno, una cosa cui non crederà: ma vorrei ci credesse perché gliela dico col cuore in mano, signorina mia, glielo giuro sulla tomba di mia madre. Non mi piace neanche un po’. Anzitutto non mi piace come uomo: fisicamente. Signorina mia… ma l’ha visto, lei, quant’ è brutto? La faccia, signorina mia… ma l’ha vista? Tutta torta, tutta asimmetrica. La parte di sinistra, passi: è una faccia lunga, una faccia triste. Ma la parte di destra, Gesù! Maria! che roba è? Buffa, dice lei. Senza dignità, dico io. Ah, come odio quella parte destra, quel mento! Dunque: anzitutto Totò non mi piace fisicamente. Poi non mi piace come personaggio… Perché, dice lei. Perché… non lo so: mi sta antipatico. Io quando mi vedo, o meglio quando mi vedevo al cinematografo, il che capitava assai raramente perché ho sempre detestato guardarmi allo specchio o sullo schermo, io mi guardavo e pensavo: Gesù, quanto è antipatico, quello. E poi Totò non mi piace come attore, come recita. Perché?, dice lei. Perché non lo so, perché non mi fa ridere. E badi che i film umoristici a me piacciono, divertono. Mi diverte Alberto Sordi, mi diverte Ugo Tognazzi, mi divertiva Charlot. Ma questo Totò, parola d’onore, non mi diverte per niente.

Per questo, principe, quando lavora, chiede sempre: «Sono stato bravo?», «Posso continuare così?». Per questo m’ha accolto così gentilmente ed è tanto modesto? Per questo.
Io, signorina mia, sono afflitto da un brutto complesso: il complesso di inferiorità. Inferiorità fisica, inferiorità intellettuale, inferiorità culturale. Per esempio: non sono un uomo colto, e questo mi pesa. Vorrei aver studiato di più, aver letto di più, aver guardato di più… Vorrei esser stato più curioso, io non sono mai stato curioso. Osservatore, sì, tutti i miei personaggi nascono dall’ osservazione, ma curioso mai. E ora che sono mezzo cieco e non posso curiosar più, legger più, studiar più…

Si consoli, principe: al vocabolario c’ è arrivato lo stesso. Guardi. (Gli porgo, disattentamente, un giornale). Lo legga. Che dice? Dice che è uscito un libro, Storia linguistica dell’Italia, dove Lei vien citato come esempio di efficacia linguistica e dove le Sue espressioni “fa d’uopo”, “quisquiglie”, “pinzillacchere”, son riportate come espressioni ormai entrate nell’uso comune. Quindi nel vocabolario.
Oh! Oh! Oh! Che bello! Questa sì che è una gioia, un onore, un piacere. (Afferra il giornale, tenta inutilmente di leggerlo, e i suoi occhi sono lucidi). Cara, quanto è cara! Chi glielo ha dato?

Un Suo ammiratore coltissimo: il quale ha saputo che venivo da Lei. Era molto eccitato all’idea che venissi da Lei. Anzi, Le dirò principe: tutti coloro cui ho detto che venivo da Lei erano molto eccitati. Lei è molto amato dagli italiani, sa?
Ah, sì? (Si stringe impercettibilmente nelle spalle e i suoi occhi cessano di colpo d’essere lucidi). Forse. Visto che mi faccio i fatti miei e non do mai fastidio. (Guarda intorno, distratto).

Principe… mi viene un sospetto.
Quale, cara?

Che non le importi un fico d’essere amato. Proprio niente. (Mi avvicina le labbra a un orecchio).
Detto fra noi, non me ne importa un bel niente. E non mi importa nemmen di piacere. Nell’uno o nell’altro caso, io tiro a campà. Tanto, il bene, me lo voglio da me.

TOTO’, PEPPINO E IL FANATICO

Totò, Peppino e un fanatico

Carmelo Bene, scrivendo in merito ad un episodio di censura cinematografica, ricordava come per il genio la censura non fosse un impedimento, ma anzi uno stimolo e che ogni grandissimo ha sempre prevalso, grazie alla evidente superiorità della sua opera, sopra ogni tentativo di farlo tacere. Ho il vago ricordo di aver letto una posizione simile anche in Borges, ma non ci giurerei. La censura può essere odiosa e certo, se assoluta e repressiva fino al punto di eliminare fisicamente, invalicabile, ma resta il fatto che, dando una occhiata a quanto ci troviamo attorno, pare che mai come oggi l’assenza totale di censura abbia partorito una linea totalmente piatta. Se la censura poteva consentire a qualsiasi imbecille di fare lo “scandaloso” utilizzando i suoi scarsi mezzi, oggi l’assenza ha reso l’imbecillità ancora più imperante e incontenibile. Per carità, non si pensi che questo voglia essere un elogio della censura, ma mi permetto solo di rilevare come l’estrema libertà di dire, scrivere, proclamare  qualsiasi fesseria ci passi per la mente, l’abitudine a considerare scandaloso qualunque e chiunque se ci è detto da un Quotidiano, siano tutte madri incinte di mai nati che, alzatisi sulle loro gambette, fanno sfoggio della loro incompletezza in un mondo che si compiace di loro, anche qaundo li critica (le parole possono non servire a nulla). A questo si aggiungono questioni di altro tipo, quanto una volta un regista temeva lo scudiscio della censura, quanto oggi si sbava per attirare l’attenzione più morbosa possibile e generare pubblicità da una non meno imprecisata e scandalosa componente “vietatissima” del proprio nulla sopra schermo. Bene riuscì a fare di tutto, Nostra Signora Dei Turcbi è un esempio evidente, tutto nel mezzo della censura più beghina e baciapile.

In questo caso però vogliamo ricordare un censore doc, una donna dalle spalle nude, un rimbrotto, un duello, un Principe, due grandi comici e Federico Fellini. Detta così sembrerà un guazzabuglio ma non lo è. Il Censore è il da poco scomparso Oscar Luigi Scalfaro, già magistrato, già ministro, già Presidente della Repubblica e già accanito censore di film. Notoriamente si dice che dei morti non si può parlare male ed infatti non leggerete, nel prosieguo della vicenda, nulla in merito al morto, alla sua sepoltura, alla posizione della salma, alle decorazioni, alla messa e via cantando (o non cantando), ci si interesserà dello Scalfaro vivo e vegeto.

 L’episodio di partenza del tutto è notorio. Narrano le cronache, più o meno smentite, che Scalfaro, offeso dalla impudenza (secondo lui) di una signora della Roma bene, Edith Mingoni Toussan, rea di essersi mostrata in un ristorante a spalle scoperte, la redarguì pesantemente, apostrofandola come “donna pubblica”, prostituta insomma, e, secondo alcuni, terminò il predicozzo rifilando una serie di schiaffi alla sventurata. La cosa scatenò aspre polemiche e, da parte dei parenti della Toussan, la richiesta di poter lavare con il sangue, attraverso un duello, il torto e l’infamia subita. Scalfaro si rifiutò categoricamente di accettare lo scontro, asserendo che la sua religione condannava il duello (certo molti di noi ricorderanno come da magistrato fece comminare la pena di morte, già a guerra finita, a due fascisti, guardandosi bene dal sottrarsi dall’incarico). Il 23 novembre 1950 l’Avanti pubblicò una lettera del Principe De Curtis

 Ho appreso dai giornali che Ella ha respinto la sfida a duello inviataLe dal padre della signora Toussan, in seguito agli incidenti a Lei noti. La motivazione del rifiuto di battersi da Lei adottata, cioè quella dei princìpi cristiani, ammetterà che è speciosa e infondata.
Il sentimento cristiano, prima di essere da Lei invocato per sottrarsi a un dovere che è patrimonio comune di tutti i gentiluomini, avrebbe dovuto impedire a Lei e ai Suoi Amici di fare apprezzamenti sulla persona di una Signora rispettabilissima. Abusi del genere comportano l’obbligo di assumerne le conseguenze, specialmente per uomini responsabili, i quali hanno la discutibile prerogativa di essere segnalati all’attenzione pubblica, per ogni loro atto. Non si pretende da Lei, dopo il rifiuto di battersi, una maggiore sensibilità, ma si ha il diritto di esigere che in incidenti del genere, le persone alle quali il sentimento della responsabilità morale e cavalleresca è ignoto, abbiano almeno il pudore di sottrarsi al giudizio degli uomini, ai quali questi sentimenti e il coraggio civile dicono ancora qualcosa

 Non risulta una risposta ufficiale da parte di Scalfaro, ma quello che appare certo, dagli studi di archivio, è la sua ampia e intensa insistenza perché un film di Totò e Monicelli, Totò e Carolina (1955), venisse sottoposto ad una forte campagna di censura, cosa che in effetti avvenne tanto che il film ne uscì pesantemente menomato. Scalfaro si prese insomma la sua vendetta, dalle retrovie, dando ulteriore prova di come, più che lo spirito cristiano, in lui agisse una certa “coniglieria” di lungo pelo. Totò, signorilmente, non risulta che abbia mai detto nulla sulla questione, ma in suo soccorso chi poteva venire se non Peppino de Filippo? E fu proprio Peppino de Filippo, impersonando i panni del moralissimo Antonio Mazzuolo, a mettere in scena la parodia dell’oramai leggendario episodio della signora Toussan.

Nel Boccaccio 70, film a episodi, Fellini si prese beffa di Scalfaro attraverso l’episodio delle Tentazioni del Dottor Antonio (Peppino, appunto) che i più ricorderanno soprattutto per la celebre scena della Anitona Ekberg gigantesca, sorta di accumulo dei sogni erotici italiani e delle predilizioni fisiche felliniane. Fellini e Peppino non solo si facevano beffe della figura in generale del moralizzatore e dunque del censore (l’opera ovviamente non ebbe vita facile), ma in particolare di Scalfaro e dunque vendicando in un sol colpo Totò e Monicelli.