Oswald vs Fischer

Sto leggendo contemporaneamente (sì, ho codesto vizio) la biografia di Bobby Fischer

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e Libra di DeLillo

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E le fortissime somiglianze nella descrizione della vita disagiata dei due, condivisa con la sola madre (il padre legale di Fischer se ne era andato, quello di Oswald era morto) mi porta al momento a formulare 3 ipotesi

  1. Leggere contemporaneamente più libri crea dei strani collegamenti
  2. Ci sono casualmente punti di contatto
  3. De Lillo non pensava solo a Oswald tratteggiando Oswald

Patonze giornalistiche e presidenziali (parte 2)

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Dicevamo precedentemente della satiriasi pansiana. Il sesso è componente molto presente (ma in maniera più analitica) anche in un interessante volume, La vita segreta di J. Edgar Hoover, di Anthony Summers. Sesso come ossessione, sesso come colpa, sesso come arma. Hoover, alfiere tra le altre cose di campagne contro l’omosessualità e sempre pronto a tirare fuori dal cilindro intercettazioni e dicerie in tal senso per affondare avversari, era omosessuale, un omosessuale represso che ha vissuto quasi tutta la sua esistenza con un compagno, collocato ad alti livelli nella FBI.

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Mentre faceva girare dossier compromettenti sopra questo o quello pare, il libro di Summers non può dare la prova definitiva ma certo le testimonianze sono attendibili, che si trastullasse vestendosi da donna e partecipando ad orgette, cosa che l’aveva messo sotto ricatto della Mafia che aveva ottenuto foto compromettenti. Hoover era un ricattatore ricattato con un dominio incontrastato sulla FBI, dominio tale da obbligare la Presidenza degli Stati Uniti a creare una norma speciale per evitare il suo pensionamento per limiti d’età. In effetti, fin da Roosevelt, tutti i Presidenti degli Stati Uniti (tutti, Kennedy compreso) sono caduti tra le grinfie di J. Edgar. Da una parte se ne servivano per fare spiare gli avversari (sì, la pratica di spiare gli avversari è ben precedente a Nixon, anzi, per certi versi la sfortuna di Nixon fu di non avere più Hoover che era deceduto nel 1971) ottenere dossier compromettenti per eliminare o azzoppare candidati, dall’altra si consegnavano così mani e piedi al capo dell’FBI che ovviamente stilava dossier anche sopra di loro e, all’occorrenza, era pronto a ricordare a Mr. President le magagne, i buchi neri e gli scheletri nell’armadio… e un Presidente degli Stati Uniti di scheletri ne ha tanti e pure qualche donnina sotto il letto. E così i legami tra Kennedy e la Mafia, tra Johnson e i petrolieri, tra Nixon e l’alta finanza, si intrecciavano con i rapporti tra Lady Roosevelt e un capo della sinistra dissidente o le svariate amanti di Kennedy (una pure in odore di essere una spia della germania est) per non parlare di tutti gli affaracci dei collaboratori presidenziali. La lettura è interessante e rivela particolari un tempo inediti e fornisce un buon antidoto a certe idealizzazioni dei “Politici d’un tempo” e di certi Presidenti eroi. In effetti la politica è sporca e quella americana, per ovvie ragioni visto il potere e il costo che suppone, è più sporca delle altre.

Patonze giornalistiche e presidenziali (parte 1)

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Scrivevo non molto tempo fa sopra la autobiografia di Pansa e della sua ossessione per la patonza. Il volume l’ho finito da tempo e devo dire che nella seconda parte la faccenda si stemperava e si rientrava più nella biografia classica. Il sospetto è che il passaggio da scapolo ad ammogliato abbia suggerito all’autore di abbandonare il tema, giusto per non incorrere nelle ire muliebri (siano vere o false le storie raccontate dal signor Pansa). Il dubbio di una certa ossessione da parte dell’autore per la questione è rinfocolato dalla uscita di un articolo di Feltri Senior (patonzologo più discreto) in merito ad un ulteriore volume del Pansa. Nel settembre 2016 Feltri infatti scrive, sulle pagine di Libero (Feltri – Pansa – Libero, la Triade della Patonza).

Ed eccoci alla sua ultima opera. Un volume il cui titolo, piuttosto verboso, è: Vecchi, folli e ribelli. I piaceri della vita nella terza età (Rizzoli, pp. 294, euro 20). Confessa che avrebbe voluto un altro titolo, «Viva la vecchiaia!», ma devono averglielo bocciato. Io l’ avrei intitolato «L’ amore al tempo delle dentiere».

Tuttavia, più che sui sentimenti, Pansa insiste sulla dura pratica della “ciulata”, descritta con penna fiorita. Si susseguono così capitoli dove, in veneranda età, Pansa si rivela come uno scrittore hard, il Rocco Siffredi del giornalismo, anche perché la tira molto in lungo con queste storielle minime a «luci rosse», per usare un’ espressione piuttosto scoraggiante da lui stesso usata a percussione.

Confesso, il libro è noioso, ma forse non sono portato per racconti di vegliardi che scostano le mutandine a ragazze le quali cedono sempre, e tutte hanno la loro convenienza a farsi esplorare il «boschetto» (giuro, Pansa scrive proprio così).

 

Sospiri e paura non della morte ma di morire, caro Giampaolo, altro che sesso da cerbiatti nel citato boschetto.

Forse è l’ invidia a dettarmi pensieri scettici, visto che Pansa a 81 anni si atteggia ancora a parlarne da contemporaneo, io potrei da storico. Del resto, non c’ è chi non veda una vanteria autobiografica quando in un raccontino si accenna a un super-dotato piemontese, mentre io al massimo sarei abilitato a rievocare le peripezie di un microfallico.

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Insomma, più che un elogio della vecchiaia e dei vecchi, l’ autore cerca di dimostrare al prossimo ma soprattutto a se stesso che lui, Pansa, è un vecchio e meraviglioso scrittore.  L’ impressione però è che se le sue falangi, falangine e falangette restano d’ oro, il loro disegno sulla pagina, invece, appare vetusto; qualcosa in lui si è arrugginito. Non il pisello, tuttavia.

P.s.: Pansa ha perso la memoria come chi è afflitto da demenza senile. Alcuni mesi orsono dichiarò a Panorama, in una intervista rilasciata a Stefano Lorenzetto, quanto segue: «Vittorio Feltri mi piace, dice quello che pensa in modo tale che tutti possano capirlo, anche in tivù. Il fatto che la sinistra lo abbia sempre sottovalutato dimostra che al 95% è fatta di coglioni. Io gli do 9. Anzi 10, toh».

Mercoledì scorso lo stesso Pansa, interrogato da Nanni Delbecchi per il Fatto Quotidiano, alla domanda: Vittorio Feltri? ha risposto: «Feltri? Non so chi è».Le ipotesi sono due: o il famoso giornalista era rincoglionito quando mi dava il massimo in pagella o lo è diventato in seguito. A una certa età succede di avere il marasma nel cervello, ma non è il caso di esibirlo.

Ammetto che mi terrò lontano da “Vecchi, folli e ribelli” e non vi è da parte mia né alcuna questione ideologica o del moralismo, ma se devo leggere storie con momenti di intreccio carnale preferisco le memorie di Casanova che, pur scrivendo oramai da anziano e malandato e con la percezione della fine del suo mondo, alterna alle parti boccaccesche (scritte meglio) interessanti riflessioni ed episodi piuttosto divertenti. A giudicare dalle parole di Feltri in “Vecchi etc…” si accentua solo il tono da “guarda che ti scrivo”. No, per favore.

A proposito di salacia e boccaccesco ricordo un passo della vita di Catone di Plutarco (Ediz. Utet 2010):

24, 1 Si dice che, nella fase più animata della discussione tra Cesare e Catone, quando in senato tutti gli occhi erano puntati su di loro, a Cesare fu recapitata dall’esterno una tavoletta. Catone si insospettì, convinto che gli autori del messaggio fossero dei congiurati (1). Intimò, pertato, a Cesare du leggerne il contenuto ma Cesare, che gli era seduto accanto, si limitò a porgergliela. Lo scritto altro non era che un messaggio dai toni audaci vergato dalla mano della sorella di Catone, Servilia, sedotta da Cesare e diventata sua amante. Resosi conto di ciò, Catone passò con violenza la tavoletta a Cesare, gridandogli: Tientela, ubriaco!” e riprese il discorso dall’inizio.

Del volume da me letto posso solo apprezzare, ma è questione mia, il fatto che per l’ennesima volta Giorgio Bocca faccia la figura del Omm e’ merd quale era, d’altro canto la carriera di questo finto “uomo tutto d’un pezzo” mi era già nota: fascista e antisemita con articoli fascistissimi e denuncia di un disfattista in treno, partigiano assetato di far fuori quei fascisti, negatore delle BR, socialista craxiano, anti craxiano, leghista, antileghista (ma non mancando di parlare di Napoli come neppure il peggior Borghezio) insomma è stato tutto e ha pure avuto il coraggio di spacciarsi per uomo puro e onesto, la santificazione ovviamente è arrivata in questa italiuccia che confonde l’anzianità con la saggezza, come se gli stronzi morissero tutti giovani…

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Un bel esempio di antisemitismo del Bocca (1942, aveva 22 anni)

è morto, pace all’anima sua ovunque sia (sento puzza di zolfo) ma vien da ridere a leggere dei suoi durissimi attacchi a Fenoglio, a Pavese, a Sciascia, tutta gente che valeva certo infinitamente più del ringhioso cane barbone di Cuneo. Ovviamente Bocca ebbe il coraggio, pur essendo stato quel che sappiamo oramai bene, di scagliarsi duramente contro il lavoro di Pansa dedicato alle azioni dei partigiani, ma non fu l’unico furbone, troviamo tra gli altri Luzzatto, figura che ultimamente è meno in auge televisivamente parlando. Luzzatto si scaglio durissimamente contro Pansa (poi fece ammenda, pare) ma soprattutto, ed ecco il vero squallore che tratteggia una figura, si scagliò con forza contro il povero Roberto Vivarelli: Vivarelli aveva rivelato in un incauto volume di memorie di essere stato quindicenne nella RSI. Apriti cielo, come Vivarelli! L’allievo prediletto di Chabod e continuatore della sua opera! Nella RSI? E giù botte ovviamente, come se un quindicenne… mentre uno classe 1920 come il Bocca era poppante, boh. Comunque botte a destra e a manca, con interventi del tipo “Vivarelli è un protagonista MINORE della nostra cultura storica”, insomma il giudizio di valore scientifico al servizio delle fisime antifa. Il peggiore, dicevamo, fu Luzzatto, giovane allievo del Vivarelli, che pensò bene di ricamarsi la veste di strenuo difensore delle libertà democratico-partigiane (lui classe 1963) rispetto ad un uomo, il suo maestro si ricordi, che era “un tizio a cui buona parte della intellighenzia italiana ha tolto il saluto”. E tanti sputi. Sul metodo storico Luzzatto torneremo prossimamente a proposito di un suo volume.

  1. Siamo all’epoca della Congiura di Catilina

Dante (Convivio I, III, 3-5)

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3 Ahi, piaciuto fosse al dispensatore de l’universo che la cagione de la mia scusa mai non fosse stata! ché né altri contra me avria fallato, né io sofferto avria pena ingiustamente, pena, dico, d’essilio e di povertate. 4. Poi che fu piacere de li cittadini de la bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di gittarmi fuori del suo dolce seno – nel quale nato e nutrito fui in fino al colmo de la vita mia, e nel quale, con buona pace di quella, desidero con tutto lo cuore di riposare l’animo stancato e terminare lo tempo che m’è dato -, per le parti quasi tutte a le quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato, mostrando contra mia voglia la piaga de la fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata. 5. Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade; e sono apparito a li occhi a molti che forseché per alcuna fama in altra forma m’aveano imaginato, nel conspetto de’ quali non solamente mia persona invilio, ma di minor pregio si fece ogni opera, sì già fatta, come quella che fosse a fare.

Il buongiorno si vede dal mattino… o della satiriasi senile di Pansa Giampaolo

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Normalmente non me ne frega nulla dei giornalisti e di quello che scrivono, siano pure inchieste e approfondimenti, non parliamo poi quando tentano di fare i romanzieri. La pigrizia però a volte spinge pure a fare cose insolite e così, appena finito un interessante volumetto su Puccini (in seguito scriverò) invogliato dal servizio “biblioteca virtuale” fornito dalla Regione ho scaricato l’autobiografia o memoriale di Pansa.

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Non mi aspettavo nulla di particolare e attualmente, sono circa a pagina 70, ho conferma di quanto potevo sospettare dall’inizio. D’altro canto non si può neppure pretendere di leggere mirabolanti accadimenti, lo stile è adeguato al tema, si fa pure leggere, non è di quelle letture che ti respingono, ma non posso dirmi affascinato.

Ma perché scriverne ora? Perché voglio lasciare questa noterella per capire se la caratteristica principale si ripete per il resto del volume. Pur premettendo l’autore che non è sua intenzione scrivere fatti privati e che non si tratta neppure di una autobiografia vera e propria, fino ad ora il particolare più rilevante è, scusate il termine, la Patonza. Uso Patonza perché, se fate una ricerca in google, le prime notizie sono di Libero che utilizza spesso il termine per i suoi titoloni (?) e visto che Pansa lavora (lavorava?) per Libero mi pare azzeccato.

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Sì, Patonza, lui che si eccita per la madre, lui che vuole vedere la Patonza della servotta, lui che vede la Patonza della cugina, fantasie sulle Patonze, fantasie su quanto lo faceva il nonno, quanto lo faceva la nonna, quanto lo facevano i tedeschi, i fascisti, i partigiani. Non è certo una questione morale (figuriamoci) ma devo dire che tutte queste Patonze ricercate, nascoste e sbirciate nelle prime 70 pagine risultano un po’ ripetitive . Se prosegue così suggerisco, per eventuali ristampe, di mutare il titolo in Lo SbirciaPatonze.

C. B. vs Eusebio (in appendice Celentani e altri animali fantastici)

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frammento di un articolo di Paolo Mauri per la Repubblica

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Non so se è stato un caso, ma proprio nei giorni in cui leggevo il libro di Testa è spuntato un Montale par lui- même che è la raccolta integrale di tutto quanto Montale stesso ha scritto o detto di sé: infatti il volume ha un sottotitolo: Interviste, confessioni, autocommenti 1920- 1981: insomma uno strumento utilissimo molto ben curato da Francesca Castellano per la Società Editrice Fiorentina. Non avevo ancora finito di leggere il libro della Castellano che mi arrivava un volumetto di Antonio Giusti pieno di personaggi incontrati dall’autore intitolato Memorie scompagnate (Apice libri) con in copertina Montale accanto a Carmelo Bene.

Antonio Giusti è un industriale: lui e sua moglie Susi hanno una villa a Forte dei Marmi nella quale Montale ha trascorso diverse estati. Nella fotobiografia di Montale curata tanti anni fa da Franco Contorbia, ci sono foto del poeta con i suoi ospiti. Non sapevo che nella stessa casa incrociava anche Carmelo Bene con sua moglie Lydia Mancinelli.

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Racconta Giusti che in privato Bene parlava male di Montale sostenendo che non era un vero poeta e Montale parlava male dell’attore dicendo che era un guitto o addirittura un delinquente abituale. Poi , trovandosi insieme, discutevano e sembravano addirittura andare d’accordo. Carmelo Bene aveva deciso che l’unico poeta del Novecento era Dino Campana. Per provocarlo qualcuno recitava un verso di Montale e Bene recitava subito il resto con la sua voce profonda e inconfondibile. Sapeva molto Montale a memoria.

Comunque durante la vacanza si incontravano poco perché Montale andava a letto alle undici, mentre Bene stava alzato tutta la notte bevendo molto e coinvolgendo chi c’era nelle sue recite shakespeariane. Una sera aveva sedotto una ragazza alla quale recitava parole d’amore suscitando la rabbia della moglie che a un certo punto gli era balzata addosso staccandogli con un morso un lobo dell’orecchio. Sangue, urla, pentimento di lei e via di corsa al pronto soccorso dove invano cercava di far passare Carmelo avanti a tutti con la scusa che era un genio…

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La mattina dopo Montale si era alzato verso le dieci come al solito e non sapeva nulla del trambusto notturno, durante il quale si era anche rotto un lume. Tutto fu attribuito al gatto. Anche la vistosa fasciatura dell’attore. E Montale che certo aveva intuito e subito aveva notato la mancanza del lume finse di crederci con la sua aria sorniona e per tutta l’estate dette la colpa al gatto di qualunque cosa accadeva, anche molto lontano da lì.

Da

2 giugno 1968
Incontro con Eugenio Montale

Il galateo di monsignor Eusebio

di Camilla Cederna

Milano – «Sono Celentano e voglio parlare con Montale», disse al telefono una voce arrogante. «È partito», rispose Montale. «Cosa vuole?».
«Gli dica che sono arrabbiatissimo, che gli darò querela», fu dall’altra parte la concitata risposta. E, con un pacato: «Va bene, riferirò», Montale riappese il ricevitore.
Ma la querela lui non la teme. È vero che elencando i personaggi famosi che figurano in una collana di Longanesi nel suo ultimo elzeviro sul Corriere egli citò anche il «sedicente cantante Celentano», ma chi dice che è un insulto? «Io mi limito a costatare un fatto: che lui dice di essere un cantante. Non è un’offesa, non è un giudizio morale: che poi questa sua qualità io l’affermi o la neghi, spetta alla malignità della gente stabilirlo».

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Tornando ai cantanti (il bell’elzeviro che mandò in collera Celentano era dedicato al fenomeno Callas), Montale è convinto che genio e imbecillità devono essere le loro principali componenti.

Genio in dose omeopatica, qualche scintilla a far tanto: e imbecillità moltissima, ché una persona intelligente, anche se ha voce (ecco il suo caso personale, prendeva lezioni dal maestro Sivori che lo considerava un baritono dei più promettenti, ma le prendeva di nascosto vergognandosene un po’), non ce la fa ad arrivare fino al palcoscenico, data la quantità di cose ridicole da affrontare, la barba finta, la spada, la calzamaglia, il cerone, il petto del soprano, la voragine della sua bocca spalancata a un centimetro di distanza, oltre a quel ripetere cinquanta volte e sempre peggio la stessa frase.
È un po’ di tempo però che di cantanti Montale non ne sente, da quando cioè ha smesso di fare la critica musicale, così adesso alla Scala non ci va più. Né lo invitano alle prove generali, da quando il sovrintendente Ghiringhelli gli ha bocciato la prefazione per un volume sulla Scala nel ventennale della ricostruzione. Non è stato comunque il sovrintendente a comunicargli il rifiuto; ma l’ufficio stampa, con una telefonata che diceva grazie tante, ma il pezzo non va bene, perché s’è permesso di dare dei giudizi personali (forse sette righe d’elogio al maestro Siciliani?).

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Del resto dai direttori o sovrintendenti dei teatri lirici lui non s’aspetta granché: non molto tempo fa uno di costoro infatti ricevette in omaggio dei dischi della Deutsche Grammophon, e la lettera d’accompagnamento finiva con due versi di Federico Hölderlin sulla musica che più di ogni altra arte affratella gli uomini: e non ringraziò lo sciagurato indirizzando la lettera a Federico Hölderlin, Berlino, direttore dalle Deutsche Grammophon? (Lettera subito fotografata e mandata in giro per il mondo con commenti ironici del vero direttore).
Con quel suo viso fuori d’ogni norma, a vari piani rotondi, scosso inoltre da qualche tic non inquietante (come gonfiare e sgonfiare adagio adagio le guance, il che aggiunge una superficie rotonda in più all’insieme), quando smette di parlare, Montale pare che faccia le fusa in poltrona ruminando i ricordi, ma non c’è domanda che non accetti, e a cui di buon grado non risponda. Ma sì, anche sui giovani naturalmente, e sui loro movimenti, coi quali però non si può identificare, per il semplice fatto che lui non è mai stato giovane, non lo è mai stato perché nessuno gliel’ha detto mai, e di solito è quando vengono dette che le cose si sanno.
Lui era il più giovane della famiglia, e aveva soltanto amici più vecchi, così quando conobbe Sbarbaro che gli era maggiore di sette anni, lo trattava con reverenza e quasi gli venne un collasso il giorno che gli propose di dargli del tu. Quel che poi vogliono fare della scuola i giovani d’oggi, sia così privilegiati (tutte quelle borse di studio, i campeggi, i viaggi, i divertimenti vari, e oltre tutto possono cominciare una carriera politica a venticinque anni), a Montale non è chiaro. In realtà, e qui la sua faccia si arriccia un pochino dal divertimento, se si organizzassero bene per distruggere completamente lo Stato, potrebbe anche nascere una cosa curiosa. Ma è sicuro che non lo faranno perché son tutti in cerca di una sistemazione.

Né d’altre parte si sa cosa sarà la scuola di domani, dati i professori e i laureati di oggi. Non sono pochi gli studenti che gli scrivono per chiedergli cos’era il Gabinetto Vieusseux che egli dirigeva, perché i loro professori non lo sanno. Quei pezzi d’asino, commenta sbuffando di nuovo: e si che al Vieusseux ci andava gente come Manzoni e Leopardi.

E intanto le cattedre vanno moltiplicandosi, e le cosiddette scienze dell’uomo, ogni giorno ne nasce una, compresa la semiologia che in un recente congresso è stata definita una scienza di cui s’ignora tutto, son poi materie che dovrebbero rientrare nelle curiosità individuali, senza essere studiare a scuola. Obbligatorie a scuola dovrebbero essere solo la lingua italiana (che nessuno sa più) e l’educazione: tutto il resto facoltativo.
Insieme a Carlo Emilio Gadda, Montale (noto come Eusebio tra gli uomini di lettere) è certo l’unico oggi, almeno fra i letterati, a dar prova di un’educazione di altri tempi, piccoli inchini, rigide attese, mano tesa ad indicar precedenza, tutto un minuetto davanti alle porte; è accompagnato dalla fama di burbero e scontroso, ed è invece gentilissimo con tutti «specialmente con la piccola gente, un po’ meno con l’alta» egli precisa. E qui ricorda lo stupore di una sua compagna di ascensore di qualche tempo fa, la vecchia cameriera di un avaro (così avaro da scegliere il suo personale fra gente tremula e fatiscente, perciò di poche pretese, e questa aveva candida la testa, grossi pacchi in braccio e gonfie vene bluastre nelle gambe). Rimase ferma nel suo angolo una volta giunta al pianterreno, quindi: «Prego», gli disse. «Esca prima lei». E: «No», fece Montale. «Passi lei per piacere». « Ma cosa dice?», ripetè la vecchia: «io sono una donna di servizio». E lui pronto: «Anch’io sono un uomo di servizio», e con un inchino le lasciò il passo.

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In mezzo all’“alta gente”, quando è costretto ad andare a un ricevimento o ad un cocktail, Montale è spesso a disagio: alieno com’è da tutte le moine sociali, in queste occasioni è specialista nel farsi sempre più remoto, come distaccato, e composto in una specie di sua allegrissima noia. Basta farglisi vicini infatti a guardare insieme a lui una persona o una cosa, perché la battuta ironica affiori insieme al divertente ricordo.
«Mi fa venire in mente un ricco signore che conobbi a Firenze tanti anni fa», dice avvistando uno dei tanti ingredienti oggi indispensabili a una riunione mondana, cioè un uomo cortesissimo dai modi femminei. «Un tale che credevo morto da un pezzo, invece l’ho visto di recente a Lucerna, sui novant’anni, direi, con una parrucca, e tutto desolato perché il suo giovane amico se n’era andato lasciandogli un biglietto e portandogli via la Rolls Royce. Sono autofinanziamenti, mi dicono, che in quegli ambienti sono di ordinaria amministrazione».

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L’antro di Leo (La terza vita di Leo, gli ultimi vent’anni del teatro di Leo de Berardinis a Bologna, Titivillus Edizioni, 2010)

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Leo de Berardinis è morto, viva Leo de Berardinis, Leo è morto, è morto due volte e dunque forse visse due volte come il Totò di Ciprì e Maresco e Leo era un po’ di questo, un po’ di quello, era un attore tecnicamente completo, sperimentatore, ma riusciva a non cadere in certa stucchevole aria d’avanguardia (l’avanguardia è storica, l’avanguardia – est- storica, diceva l’Altro) e se di Carmelo la voce è eterea eppure tanto registrata, di Leo i materiali sono pochi e spesso ciancicati, a volte ‘sti materiali son proprio ‘na schifezza, ‘na zoza e ti pigliano pure alla sprovvista… tipo che io confesso di amare molto il Totò Principe di Danimarca, penso sia riuscito in tutto e che desse piena visione delle possibilità di un repertorio classico ed eterno eppure giocato, speziato, con effetti speciali umani, eppure pare, così dicono quelli che erano con lui e con lui “fecero l’impresa” che l’esito è un pallido spettro di quello che doveva essere, che quella registrazione che a me appare così preziosa, con tanto di improvvisazioni e ridersi addosso del mancato effetto, è l’esito di faticosi accordi, di compromessi, il colore non è quello, le luci non sono quelle, taglia e cuci, cuci e taglia… e a me che pareva un prodigio… e io che credevo di avere capito… è che credevi cachera? Mica sono fiaschi che si abboffano… calma, eppure, boh, sarà, io consiglio ugualmente di partire da Totò Principe (di Danimarca), sarà che Shakespeare e Totò… e ho detto tutto. Il volume è nato quando Leo fluttuava in quella strana vita che è dopo il coma e prima della morte, Leo è morto in corso d’opera(zione), si tratta dunque d’un opera(zione) incompiuta, un pastiche, Scaramouche, operazione estetica poi, verrebbe da ridere se non fosse la tragedia che c’è dietro a quella interruzione d’ossigeno. Il convegno, l’insieme di scritti, il coro di voci, così è assemblato perché Leo fu corale, per quanto despota, capocomico, capobanda e capomanipolo, pur approdando alla fine alla solitudine di Past Eve and Adam’s, pur essendo Leo e dunque la zampata la dava e la dava forte, non c’è da scordare che è stato uno dei pochi a figliare davvero teatralmente. Guardate il recente premio Duse alla Bucci, guardate Marco Sgrosso, ha collaborato con grande esito con nomi come Enzo Vetrano, Antonio Neiwiller, Toni Servillo, Leo ha figliato o ha contributo a tirare su buone leve, non era etereo e solitario eppure lo era, forse si intrecciavano le due vite (o tre come si intende nel volume separando il Leo e Perla, dal Leo Teatro di Leo ed il Leo conclusivo che scivola nel silenzio). Nel 2012 se ne è andato pure Maurizio Viani, le luci, le luci di Leo, quelle luci che sono svanite e che facevano dannare i fotografi e obbligavano a compromessi per le riprese.Se Leo era la voce, Maurizio era la luce e come luce era pure difficile da intervistare, era schivo, pare parlasse molto poco e d’altro canto era giusto perché il compito di emettere suoni spettava a Leo.

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Nel volume ho trovato Leo? No. E magari significa che l’ho trovato perché se dove pensavo di trovarlo (Totò Principe) non c’era allora forse ci sarà dove non mi sono accorto della sua presenza. Una lettura che consiglio per perdersi in un labirinto di Leo, molte voci, accumulate, alcune fanno dei lunghissimi monologhi, alcuni rispondono rapidamente, alcuni proprio non parlano o non parlano più, un po’ di biografia, un po’ di cronologia, un po’ di discussione critica e tecnica. Se lo trovate fatemi un fischio… o una pernacchia.

A. Arbasino, Ritratti e Immagini, Adelphi 2016

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A scrivere del “nuovo” Arbasino mi trovo un po’ in imbarazzo, cosa che se ci penso bene mi capita quasi sempre con “l’ultimo” Arbasino, perché dalla lettura non porto via quasi nulla, chiuso il volume (digitale) il contenuto svanisce dalla mia mente eccetto pochissimi, tenui e probabilmente inutili ricordi. Dei nuovi Ritratti posso dire che, credo, siano più godibili per scrittura rispetto a Ritratti Italiani, ho infatti la vaga sensazione che il volume precedente fosse scritto in modo più arzigogolato (ma non nel senso positivo dell’Arbasino d’antan) eppure non posso dirmene certo perché dovrei ricordare di più di quello che ho conservato in memoria. Di questo “Ritratti e Immagini”, appena concluso, posso dire che vi sono a volte dei Ritratti minuscoli, pochissime righe, altri più densi, ma nel mio cervello ritrovo solo la descrizione della Dietrich che ammicca al pianista e canta un repertorio difficoltoso, fatto di parti che non può più, parti che non avrebbe mai potuto e qualcosa che ora e sempre può, il tutto con la sensazione di vedere nella gabbia l’ultimo splendido esemplare di Tilacino che si agita sconsolato.

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Il problema è che, serrato digitalmente il volume, si resta con un dubbio sulla identità di codesto Tilacino: la Dietrich, Arbasino o il lettore?

PS: avrei potuto tentare una “riflessione” affastellando, senza soluzione di continuità, le persone ritratte, dando micro pennellate, ma avrei dovuto ripescare uno per uno i soggetti e rubare a man bassa dal volume e non dalla mia memoria completamente obnubilata.

PPS: eterna riconoscenza ad Arbasino per avermi fatto conoscere in passato Dossi e le sue Note Azzurre