frammento di un articolo di Paolo Mauri per la Repubblica
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Non so se è stato un caso, ma proprio nei giorni in cui leggevo il libro di Testa è spuntato un Montale par lui- même che è la raccolta integrale di tutto quanto Montale stesso ha scritto o detto di sé: infatti il volume ha un sottotitolo: Interviste, confessioni, autocommenti 1920- 1981: insomma uno strumento utilissimo molto ben curato da Francesca Castellano per la Società Editrice Fiorentina. Non avevo ancora finito di leggere il libro della Castellano che mi arrivava un volumetto di Antonio Giusti pieno di personaggi incontrati dall’autore intitolato Memorie scompagnate (Apice libri) con in copertina Montale accanto a Carmelo Bene.
Antonio Giusti è un industriale: lui e sua moglie Susi hanno una villa a Forte dei Marmi nella quale Montale ha trascorso diverse estati. Nella fotobiografia di Montale curata tanti anni fa da Franco Contorbia, ci sono foto del poeta con i suoi ospiti. Non sapevo che nella stessa casa incrociava anche Carmelo Bene con sua moglie Lydia Mancinelli.
Racconta Giusti che in privato Bene parlava male di Montale sostenendo che non era un vero poeta e Montale parlava male dell’attore dicendo che era un guitto o addirittura un delinquente abituale. Poi , trovandosi insieme, discutevano e sembravano addirittura andare d’accordo. Carmelo Bene aveva deciso che l’unico poeta del Novecento era Dino Campana. Per provocarlo qualcuno recitava un verso di Montale e Bene recitava subito il resto con la sua voce profonda e inconfondibile. Sapeva molto Montale a memoria.
Comunque durante la vacanza si incontravano poco perché Montale andava a letto alle undici, mentre Bene stava alzato tutta la notte bevendo molto e coinvolgendo chi c’era nelle sue recite shakespeariane. Una sera aveva sedotto una ragazza alla quale recitava parole d’amore suscitando la rabbia della moglie che a un certo punto gli era balzata addosso staccandogli con un morso un lobo dell’orecchio. Sangue, urla, pentimento di lei e via di corsa al pronto soccorso dove invano cercava di far passare Carmelo avanti a tutti con la scusa che era un genio…
La mattina dopo Montale si era alzato verso le dieci come al solito e non sapeva nulla del trambusto notturno, durante il quale si era anche rotto un lume. Tutto fu attribuito al gatto. Anche la vistosa fasciatura dell’attore. E Montale che certo aveva intuito e subito aveva notato la mancanza del lume finse di crederci con la sua aria sorniona e per tutta l’estate dette la colpa al gatto di qualunque cosa accadeva, anche molto lontano da lì.
Da
2 giugno 1968
Incontro con Eugenio MontaleIl galateo di monsignor Eusebio
di Camilla Cederna
Milano – «Sono Celentano e voglio parlare con Montale», disse al telefono una voce arrogante. «È partito», rispose Montale. «Cosa vuole?».
«Gli dica che sono arrabbiatissimo, che gli darò querela», fu dall’altra parte la concitata risposta. E, con un pacato: «Va bene, riferirò», Montale riappese il ricevitore.
Ma la querela lui non la teme. È vero che elencando i personaggi famosi che figurano in una collana di Longanesi nel suo ultimo elzeviro sul Corriere egli citò anche il «sedicente cantante Celentano», ma chi dice che è un insulto? «Io mi limito a costatare un fatto: che lui dice di essere un cantante. Non è un’offesa, non è un giudizio morale: che poi questa sua qualità io l’affermi o la neghi, spetta alla malignità della gente stabilirlo».[—]
Tornando ai cantanti (il bell’elzeviro che mandò in collera Celentano era dedicato al fenomeno Callas), Montale è convinto che genio e imbecillità devono essere le loro principali componenti.
Genio in dose omeopatica, qualche scintilla a far tanto: e imbecillità moltissima, ché una persona intelligente, anche se ha voce (ecco il suo caso personale, prendeva lezioni dal maestro Sivori che lo considerava un baritono dei più promettenti, ma le prendeva di nascosto vergognandosene un po’), non ce la fa ad arrivare fino al palcoscenico, data la quantità di cose ridicole da affrontare, la barba finta, la spada, la calzamaglia, il cerone, il petto del soprano, la voragine della sua bocca spalancata a un centimetro di distanza, oltre a quel ripetere cinquanta volte e sempre peggio la stessa frase.
È un po’ di tempo però che di cantanti Montale non ne sente, da quando cioè ha smesso di fare la critica musicale, così adesso alla Scala non ci va più. Né lo invitano alle prove generali, da quando il sovrintendente Ghiringhelli gli ha bocciato la prefazione per un volume sulla Scala nel ventennale della ricostruzione. Non è stato comunque il sovrintendente a comunicargli il rifiuto; ma l’ufficio stampa, con una telefonata che diceva grazie tante, ma il pezzo non va bene, perché s’è permesso di dare dei giudizi personali (forse sette righe d’elogio al maestro Siciliani?).
Del resto dai direttori o sovrintendenti dei teatri lirici lui non s’aspetta granché: non molto tempo fa uno di costoro infatti ricevette in omaggio dei dischi della Deutsche Grammophon, e la lettera d’accompagnamento finiva con due versi di Federico Hölderlin sulla musica che più di ogni altra arte affratella gli uomini: e non ringraziò lo sciagurato indirizzando la lettera a Federico Hölderlin, Berlino, direttore dalle Deutsche Grammophon? (Lettera subito fotografata e mandata in giro per il mondo con commenti ironici del vero direttore).
Con quel suo viso fuori d’ogni norma, a vari piani rotondi, scosso inoltre da qualche tic non inquietante (come gonfiare e sgonfiare adagio adagio le guance, il che aggiunge una superficie rotonda in più all’insieme), quando smette di parlare, Montale pare che faccia le fusa in poltrona ruminando i ricordi, ma non c’è domanda che non accetti, e a cui di buon grado non risponda. Ma sì, anche sui giovani naturalmente, e sui loro movimenti, coi quali però non si può identificare, per il semplice fatto che lui non è mai stato giovane, non lo è mai stato perché nessuno gliel’ha detto mai, e di solito è quando vengono dette che le cose si sanno.
Lui era il più giovane della famiglia, e aveva soltanto amici più vecchi, così quando conobbe Sbarbaro che gli era maggiore di sette anni, lo trattava con reverenza e quasi gli venne un collasso il giorno che gli propose di dargli del tu. Quel che poi vogliono fare della scuola i giovani d’oggi, sia così privilegiati (tutte quelle borse di studio, i campeggi, i viaggi, i divertimenti vari, e oltre tutto possono cominciare una carriera politica a venticinque anni), a Montale non è chiaro. In realtà, e qui la sua faccia si arriccia un pochino dal divertimento, se si organizzassero bene per distruggere completamente lo Stato, potrebbe anche nascere una cosa curiosa. Ma è sicuro che non lo faranno perché son tutti in cerca di una sistemazione.Né d’altre parte si sa cosa sarà la scuola di domani, dati i professori e i laureati di oggi. Non sono pochi gli studenti che gli scrivono per chiedergli cos’era il Gabinetto Vieusseux che egli dirigeva, perché i loro professori non lo sanno. Quei pezzi d’asino, commenta sbuffando di nuovo: e si che al Vieusseux ci andava gente come Manzoni e Leopardi.
E intanto le cattedre vanno moltiplicandosi, e le cosiddette scienze dell’uomo, ogni giorno ne nasce una, compresa la semiologia che in un recente congresso è stata definita una scienza di cui s’ignora tutto, son poi materie che dovrebbero rientrare nelle curiosità individuali, senza essere studiare a scuola. Obbligatorie a scuola dovrebbero essere solo la lingua italiana (che nessuno sa più) e l’educazione: tutto il resto facoltativo.
Insieme a Carlo Emilio Gadda, Montale (noto come Eusebio tra gli uomini di lettere) è certo l’unico oggi, almeno fra i letterati, a dar prova di un’educazione di altri tempi, piccoli inchini, rigide attese, mano tesa ad indicar precedenza, tutto un minuetto davanti alle porte; è accompagnato dalla fama di burbero e scontroso, ed è invece gentilissimo con tutti «specialmente con la piccola gente, un po’ meno con l’alta» egli precisa. E qui ricorda lo stupore di una sua compagna di ascensore di qualche tempo fa, la vecchia cameriera di un avaro (così avaro da scegliere il suo personale fra gente tremula e fatiscente, perciò di poche pretese, e questa aveva candida la testa, grossi pacchi in braccio e gonfie vene bluastre nelle gambe). Rimase ferma nel suo angolo una volta giunta al pianterreno, quindi: «Prego», gli disse. «Esca prima lei». E: «No», fece Montale. «Passi lei per piacere». « Ma cosa dice?», ripetè la vecchia: «io sono una donna di servizio». E lui pronto: «Anch’io sono un uomo di servizio», e con un inchino le lasciò il passo.In mezzo all’“alta gente”, quando è costretto ad andare a un ricevimento o ad un cocktail, Montale è spesso a disagio: alieno com’è da tutte le moine sociali, in queste occasioni è specialista nel farsi sempre più remoto, come distaccato, e composto in una specie di sua allegrissima noia. Basta farglisi vicini infatti a guardare insieme a lui una persona o una cosa, perché la battuta ironica affiori insieme al divertente ricordo.
«Mi fa venire in mente un ricco signore che conobbi a Firenze tanti anni fa», dice avvistando uno dei tanti ingredienti oggi indispensabili a una riunione mondana, cioè un uomo cortesissimo dai modi femminei. «Un tale che credevo morto da un pezzo, invece l’ho visto di recente a Lucerna, sui novant’anni, direi, con una parrucca, e tutto desolato perché il suo giovane amico se n’era andato lasciandogli un biglietto e portandogli via la Rolls Royce. Sono autofinanziamenti, mi dicono, che in quegli ambienti sono di ordinaria amministrazione».[—]