La Storia a comode rate

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Sono piuttosto stufo di tutti questi che annunciano e indicano le loro azioni come storiche, questi beccamorti che proclamano come la loro sia una rivoluzione (di che?) portata avanti contro (chi?). Dire che una cosa è “un evento storico” è spesso una pura illusione, per essere storico un evento dovrebbe essere valutato a distanza, gli eventi storici programmatici sono più delle porcherie pubblicitarie, non mi stupisco dunque che si sia oramai nell’era del “corro a comprare in edicola il mio pezzo di evento storico”, sia il numero speciale di qualche rivista falcidiata dai Jihadisti, un discorso banale di un eresiarca, un banalissimo giubileo (flop), il libro postumo* dello scrittore sommerso dai marosi, anzi dal #marOSO, o l’ennesima elezione dell’ennesimo nuovo elemento scelto accuratamente tra la vecchia guardia…

*detto tra di noi, il libro mostra contenuti da far cadere le braccia e spiega una delle ragioni dell’odio verso internet mostrato dall’autore: in banalità sulla rete si viene sorpassati e vinti, non c’è bustina che tenga, senza contare lo sforzo sulla carta stampata tra i vari Buongiorno al Cazzo di Gramellini o Amaco Mio del Serra…

Giganti valutati da nani…. no, in realtà nani valutati da nani collocati in una buca.

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La commozione generale e la percezione di una perdita per la cultura pare inversamente proporzionale al reale valore culturale di una persona. I molti si commuovono per il poco. Così, trovo conferma da ieri sera, la sensazione che sia scomparsa una persona che vede la realtà e prevede il futuro è falsata tra le masse: si attribuisce lucidità e visionarietà a personaggi che hanno ripetuto per decenni verità giornalistiche, ovvietà rimasticate e digerite, facilonerie, minimi e semi infecondi tratti da bustine prodotte in serie e con certificati, mentre si scarica come “scomodo” e “eterodosso” chi ha davvero mostrato una visione chiara di quello che avveniva e, credo, di quello che avverrà… ma l’importante è l’olliwud, benigne olliwudate. La pochezza poi emerge, zitta zitta, dal Je Suis, numero speciale, affretta, fai vomitare l’editoria, butta fuori, affretta, spazza, imprimi, dai dai dai, che alla gente del je suis la commozione dura un secondo.

Et accedens tentator dixit ei…

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Io lo so, tu ‘l saprai? Io lo so, conosco le tecniche, ho soppesato, negli anni ho disciolto e separato, negli anni ho formulato e suddiviso, negli anni ho inteso, io lo so, e non è superbia o creduloneria, solo che a trafficare con l’uomo, stando attenti, vigili, non è necessario arrivare ai 100 anni per intendere. Io lo so, lo so come funziona la mente umana e come la piaggeria sia la chiave per penetrare in molti cuori, come poche parole possano bastare, se scenicamente disposte, se preparate, coreografate, a rompere montagne, a trascinare dalla colonna alla polvere, più ci si consolida e più vi sarà quella crepa, magari nascosta, il varco, la fatale bocca per vincere l’assedio. Io lo so, tu ‘l saprai?

Miserabilia di un misera-bile

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Costui è un miserabile. Utilizzo il termine con compassione fere cristiana. Un miserabile perché un tizio che supera certe età e ha ancora i complessi del “capo da riverire”, ha bisogno di essere leccato, deve dare i pugni sul tavolo non per sostenere tesi poderose ma per mettere silenzio in una piccola corte di miracoli, insomma uno che supera tale età e non ha ancora il coraggio di parlare schietto invece di intorcigliarsi in formulette e caghetterie è un miserabile. Uno che ha una paura folle della morte e di perdere il suo piccolo regno di pupazzi di carta stampata. Da morto, se vi è un aldilà, romperà i coglioni perché ammazzino d’un botto tutta la redazione del suo giornale e li traghettino da lui, per ricostituire il piccolo regno miserabile di uno che, nella vita, è stato un po’ di tutto per non essere mai niente.

Non canimus surdis

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Un paio di volte ho sognato di venirti a trovare, sbirciavo ultimamente grazie a Google Street la via, occhieggiavo il portone, più basso della media, e mi dicevo: magari un giorno. Te lo dico rapido: volevo che mi mandassi a fare in culo. Ovvio che mi avresti mandato a quel paese, ma in fondo sarebbe stato un onore, anche io ho ricevuto un vaffanculo da lui. Hai litigato con tutti, più ti trattavano con riguardo e più li cacciavi a pedate, d’altro canto a volte ti sei messo (per breve tempo ovviamente) con gentaglia che non era neppure degna di allacciarti le scarpe, poi mandavi a fare in culo pure loro. Tirare dritti per la propria strada, contro tutti, fregarsene eppure non tanto da non intervenire per dire la propria (contro). Io non ho quella fibra, spesso mi tranquillizzo, lascio cadere… nel computo attuale sono più le persone che sono scampate ai miei giusti (per me) insulti. Non ho litigato con quanti avrei dovuto. Però forse c’è sempre tempo, che dici? Non escludo di mandarti a fare in culo, pur se assente, prima o poi, qualche riflessione delle tue non l’ho mai digerita, segno che devo elaborare e non scorre via tutto in quel liquame che è spesso quanto si scrive.

Della dolce inutilità

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Una delle poche cose che passerò il resto della vita a ribadire è il mio vanto di riuscire bene in cose inutili, pur ammettendo che è vanteria comoda essendo assai portato per questo. Non voglio essere utile, ho proprio schifo per l’utile, l’epidermide si irrita appena entro a contatto con quelli che si vogliono rendere utili. Siate inutili. Non ci riuscite? Avete ragione, essere inutili è una fatica, si è sempre sul filo del ricoprire una funzione sociale, fondare associazioni (io l’ho fatto, una volta, una eclissi della mente, son durato dentro meno di un mese vedendo che rischiava di servire a qualcosa… anzi a qualcuno e ne sono uscito a urla), entrare in qualche gruppo, fare qualcosa per questo o per quello, ma rimane il fatto che se per natura uno riesce bene nelle cose inutili non cambia la sua natura…

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Piccoli Travicelli

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Neppure nell’ultimo istante uno capirà mai perché gli uomini abbiano questa costante necessità di ondeggiare, ondeggiare, ondeggiare tra libertà e prigione e più son liberi e più si assiderano per una gabbia e più sono rinchiusi e maggiore è il rumore delle loro capocciate contro la porta per uscire. Capirli. Non penso si possa e poi a che pro?. Il mondo è solo una variante del racconto del Re Travicello, in fondo le rane non facevano altro che fare e disfare, desiderare e perdere desiderio, così gli stessi popoli che aspiravano ora alla libertà totale, alla uguaglianza tabula rasa, dopo si affannano perché ogni cosa si ritrovi incasellata, vogliono la marca da bollo, il timbro, senza timbro gli pare mica di respirare, vogliono i cartellini, vogliono i padri nobili, la striscia magnetica da passare sul lettore, vogliono sentirsi dire cosa sono e dove andare, poi verranno nuovamente a voler disfare tutto, al cesso i diplomi, al cesso le lauree brevissime, al cesso, soffieranno sul fuoco che divorerà i pezzi di carta che li hanno tenuti fuori al gelo.