SCRIVI e FUGGI

Kilroy was here

I festival della letteratura, le riunioni dei letterati, i sodalizi artistici di gruppi, la scrittura a 40 mani, ali babà e i 40 barboni, i sensi di colpa esistenziali, munchausen a mauthausen. Per una volta lascerò la fettuccia del “senza volere fare paragoni/paralleli”, dato che mi pare evidentissimo il divario e la discrepanza, eppure mi ritrovo in Simenon e mi rammento in Borges. Quale senso avrebbe un “simposio” di scrittori? In teoria sono animali rari che fuggono la luce del giorno, strisciano, cesellano, lavorano, vanno a ripescare nel cestino perché, alle tre del mattino, si svegliano ricordandosi che forse quella pallottola di carta era più efficace del dispiegamento massiccio del loro arsenale, disposto alla meglio sopra una monticciola bianca. Questi animali strani non sono da branco, scambi sulle tecniche di assalto alle giugolari, mai diffondere i segreti, seminari sopra l’accerchiamento ad usum artificum, non sono materia d’istruzione, sapere accerchiare in solitudine è atto di fede, atti sopra l’arte del collocare punti, virgole e punti e virgole? Solitari, ma ancora più solitari e restii se devono mettersi in mezzo ad altri millantatori: non ha senso, gare di destrezza, esibizioni da buffoni sopra il palchetto, tra l’allodola e l’alzavola, a mostrare piumaggi e gorgogliare… non è roba da pianisti seri, la tastiera non si mostra se non inoperosa, il foglio deve essere o tutto bianco o già ricolmo, con i margini stiracchiati per far saltare fuori quella desinenza che sempre ha fatto il pieno al cenone.

George Simenon: “Non abbiamo nulla da guadagnare noi scrittori a frequentare altri scrittori. Noi dobbiamo frequentare gente qualunque (…). Quando parlo con il sindaco del paese di qui, parlo dei problemi del paese e questo è interessante. Quando parlo con un fattore che mi parla delle sue mucche, questo è interessante. Ma quando parlo con uno scrittore che mi parla di letteratura, questo non mi interessa (…). Un operaio che parla del suo mestiere mi interessa, perché mi insegna qualche cosa”.

Mi rammento in Simenon e mi ritrovo in Borges, seduto in una sala che saprà forse di chiesa ma dove il dogma non regna, nonostante certi sforzi, certi corpi in torsioni da scardinare i nervi, alcuni discutono, altri giocano al primeggiare, anche i migliori ne escono con le ossa spezzate, Borges no, rifugiatosi nella ceguera si può anche permettere di discorrere in mezzo a loro, ma non li percepisce davvero o forse li annulla, un consesso di scrittori è un errore mortale, fossero anche per la maggior parte (e quasi sempre lo sono) gente che gioca a recitare la parte dello scrittore o, perdonatemi, si canta artista. Borges conversa perché li ha filtrati, come se possedesse uno di quegli anelli che donano particolari poteri, ne filtra l’essenza, non sono scrittori, altrimenti è meglio fuggire.

Chi scrive dovrebbe evitare il carrozzone, il carro, neppure appoggiarsi un secondo alle stanghe, evitare la fiatella dello scrivere testone a testone, i premi, i dibattiti, rifinisse il naso (i nasi vanno rifiniti, porcaccia la miseria, si devono addestrare come il tartufo d’un segugio o si cadrà facilmente tra le grinfie dei Tartufi) rifinisse il naso lo scrittore e sentirebbe puzza di lercio anche sui manifesti, le firme incolonnate, liste della spesa politica, fantaccini sociali in marcia verso la sventagliata di mitra, sì, rifletteteci, ci piazzate la firma e finite ad odorare i posteriori delle firme altrui tendendovi, per quanto siate poco elastici, fino a porgere le terga della vostra firma agli scribacchianti che vi seguiranno. Con questo che non vi venga il buzzo di iniziare voi una raccolta, scarligare in questi pozzi è un attimo di questi tempi, per favore, sareste solo in cima al letamaio e la puzza, se ci pensate bene, sale. Così mi pento, miei signori, mi pento per quel pochissimo di me che ho lasciato scivolare in quegli anfratti, ero giovane, avevo belle speranze, così si dice, sono solare e caduto sul fronte orientale (metà si dice ancora, la seconda la si è scordata perché le origini stupirebbero, vedi Klemperer) ma vedrò che non accada, non tanto per voi dato che ignoro ogni cosa della vostra esistenza, salvo una lieve condiscendenza nella lettura, ma per una questione di sanità e disinfestazione.

SIMENON e FELLINI, MATRIX e WILLIAM MORRIS ovvero CURIOSI INCONTRI TRA SOGNI E INFERNI VIRTUALI

 

    La storia del cinema mi attira, a differenza del cinema stesso, quello che è dietro alla camera mi affascina molto più di quello che si girava davanti, dunque non è insolito che mi abbia incuriosito un piccolo libro della Adelphi (142 pagine) dedicato al carteggio tra Fellini e Simenon. I due si incontrarono in occasione del Festival di Cannes, presieduto da un infastidito Simenon, incastrato in quello che, a quanto scrive lui stesso, si rivelò presto un concorso farsa, con pressioni addirittura ministeriali perché certe Nazioni vincessero almeno un premio, sul modello del Nobel. In barba alle pressioni Simenon, con l’aiuto di Henry Miller, assegnò il premio all’osteggiatissimo La Dolce Vita.

   Nasce così un carteggio tra il regista e lo scrittore che finirà solo con la morte di Simenon nel 1989. Le lettere raccolte da Adelphi (ignoro se si tratti della intera collezione) mostrano un Fellini più esuberante e aperto, anche nel narrare le crisi creative e il vuoto successivo ad ogni lavoro concluso, rispetto ad un Simenon forse più propenso allo scrivere con uno stile più artificioso e impersonale. Entrambi si scambiavano fior di complimenti, ma è a mio parere la parte di Fellini quella più interessante: Fellini racconta di diversi sogni, uno con protagonista lo stesso Simenon, e delle grosse difficoltà di realizzazione di alcuni dei suoi lavori, della stanchezza, dei momenti di sconforto, della costante sensazione di dover colmare ogni istante della propria esistenza con un progetto nuovo. L’impressione è che Simenon, impegnato negli ultimi anni a dettare volumi e volumi di memorie, fosse troppo concentrato a non “sprecare” materiale di scrittura nelle missive, per riversarlo nelle pubblicazioni futura, una sorta di parsimonia da parte di uno scrittore quanto mai esuberante.

  Non ho mai visto Matrix, tranne che per frammenti, e non ho intenzione di vedere Matrix. L’idea è certo interessante (anche se vecchiotta oramai) ma non vale tutto quel tempo davanti ad uno schermo per parte mia. Riflettevo però sopra una strana coincidenza dovuta probabilmente al caso tra una scena principe del film, oramai diventata quasi una sorta di momento topico, e un brano di un libro oramai dimenticato. Alludo alla scena della pillola rossa e della pillola blu. Riassumo brevemente per i pochi che non la conoscono, badate bene che il mio riassunto attinge ampiamente dalla rete per rendere la descrizione coincidente con la sceneggiatura. Quasi al principio del film il protagonista, tal Thomas Anderson programmatore di computer, viene posto da Morpheus davanti alla scelta tra vedere la realtà dei fatti, ovvero uscire dal mondo virtuale nel quale lui e tutta la popolazione vive segregata, o proseguire nel suo sogno perdendo completamente il ricordo dell’incontro con questa sorta di angelo (nel senso etimologico del termine, ovvero colui che annuncia, messaggero). La decisione è fisicamente rappresentata dalla scelta tra due pillole, una rossa in grado di svelargli la realtà dei fatti, l’altra blu che cancellerà per sempre i fatti recenti permettendogli di proseguire nella sua quotidiana illusione di vita.

  Una curiosa coincidenza, a quanto vedo, sembrerebbe esservi con una scena descritta nel volume di poesie del preraffaellita William Morris, The Defence of Guenevere: un moribondo nel suo letto viene visitato da un angelo che gli presenta due vesti, una rossa e una blu, chiedendogli di scegliere tra l’inferno e il paradiso. Dopo un lungo titubare il disgraziato opta finalmente per il paradiso e sceglie la blu, ma l’angelo, con grande stupore del moribondo, gli confessa che ha proprio fatto la scelta opposta, dato che era il rosso il paradiso e azzurro l’inferno. Non ho idea se questa coincidenza sia voluta o casuale, se vi sia un richiamo, perfino inconscio, tra le due scene e se mai sia stata analizzata la cosa, resta il fatto che, come in Morris, anche in Matrix il blu è l’inferno della bugia quotidiana, un mondo creato ad arte per dominare e illudere gli esseri viventi, spacciando per una libertà quella che è una reale prigione, e il rosso il “paradiso” della rivelazione della verità dei fatti.