Franz Kafka in Italia, tra aerei, d’Annunzio e pulci.

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A Brescia, una sera tardi, volevamo andare rapidamente in una certa strada che, secondo noi, doveva essere piuttosto lontana. Un vetturino ci chiede tre lire, noi ne offriamo due. Il vetturino rinuncia alla corsa e per pura amicizia ci descrive la lontananza addirittura paurosa di quella via. Allora incominciamo a vergognarci dell’offerta che avevamo fatto. Bene, facciamo tre lire! Montiamo, la carrozza fa tre svolte per brevi stradette ed eccoci alla meta. Otto, più energico di noi due, dichiara che non ha nessuna intenzione di pagare tre lire per una corsa che è durata un minuto. Dice che una lira è più che sufficiente. Ecco qui la lira. È ormai notte, la stradetta è deserta, il vetturino robusto. Questi si riscalda subito come se la lite durasse da un’ora: “Come? Questo si chiama imbrogliare. Cosa credono loro? Si sono pattuite tre lire e tre lire devono essere. Fuori le tre lire o la vedrete!” Otto: “Vogliamo la tariffa o chiamiamo le guardie” La tariffa? non esiste tariffa. E poi che c’entra la tariffa? Si trattava di un accordo per una corsa notturna, ma lui era disposto a lasciarci andare se gli pagavamo due lire. Otto, con voce da far paura: “La tariffa o le guardie!” Dopo grida e ricerche quello estrae una tariffa sulla quale non si vede altro che sudiciume. Ci mettiamo d’accordo per una lira e cinquanta e il vetturino prosegue per quella via stretta nella quale non può voltare ed è non solo furibondo ma anche, mi sembra, malinconico. Infatti il nostro comportamento non è stato giusto, purtroppo; così non si deve fare in Italia, può darsi che sia bene altrove ma non qui. Ma nella fretta chi sta a pensarci? non c’è niente da fare: in una breve settimana aviatoria non si può certo diventare italiani

F. Kafka, Gli Areoplani a Brescia

Franz Kafka nel 1909 chiese una vacanza per ragioni di salute, i suoi nervi erano logorati dal continuo lavoro di ufficio e dalla assenza di qualsivoglia periodo di pausa negli ultimi tre anni. Armato di certificato medico lo scrittore presentò richiesta ufficiale e ricevette un permesso straordinario di 8 giorni. Ad inizio settembre Kafka e i fratelli Brod giunsero presso Riva del Garda per godersi un po’ di riposo in un luogo che, come oggi, era una meta molto gradita per i sudditi dell’allora impero. Non sarà l’unica volta che Kafka andrà a Riva, nel 1913 questo luogo rappresenterà per lui una sorta di piccolo rifugio. In entrambi i casi Kafka soggiornò presso il Sanatorium del Dr. Von Hartungen.
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Paolo Poli (1929 – 2016)

  Paolo Poli se ne è andato, portato via da qualche brutto malanno, a Roma nell’ospedale Fatebenefratelli, proprio come Palazzeschi e come Palazzeschi Poli era nato a Firenze e le ultime apparizioni sono legate ai versi dello scrittore fiorentino.

  Paolo Poli se ne è andato e con lui una memoria enorme fatta di frequentazioni interessantissime, di aneddoti che ogni tanto tirava fuori dal cappello, ma che in parte resteranno ignoti perché non volle mai scrivere una vera biografia, né una memoria. Era della vecchia scuola del teatro, quella che considera il lavoro l’unico spazio di confronto delle qualità e che ritiene il proprio mestiere e la propria figura destinata a svanire. Totò pensava la stessa cosa, pur con tanti film alle spalle, ancora ripeteva che di lui non sarebbe rimasto nulla perché questo è il malinconico destino dell’attore. Poli fece poco cinema, non so se perché poco propenso o se mal utilizzato, certo poteva essere un raffinato caratterista, ma dedicò quasi tutta la sua vita alla radio ed al teatro, inframezzato a quelle scorribande che definiva marchette: a tante cose di contorno che gli servivano per pagarsi il suo teatro e, negli ultimi anni in particolare, per vivere dignitosamente visto che la pensione, diceva, era misera. L’anno scorso si è improvvisamente ritirato, stufo di un mondo che era troppo cambiato, a partire dal pubblico, e di una serie di inadempienze economiche da parte di alcuni comuni che non l’avevano mai pagato per i suoi spettacoli. Propaggini di quello Stato che oggi, per almeno 24 ore, lo piangerà. Ignoro se fosse già iniziata la malattia, resta il fatto che lontano dal teatro Poli è morto in breve tempo, pur avendo fino a pochi mesi or sono mostrato di essere ben presente in fisico e mente.

  Paolo Poli non c’è più, uscito di scena un venerdì mentre sulle televisioni impazzavano porcherie come quelle di Bonolis, una televisione volgare che è tanto più volgare quanto più pretende, in alcuni momenti, di assumere toni seri, che sbraca sulla nonnetta, il cretino, la parodia parossistica della checca, il lecchino e compagnia bella. Chiaramente con un mondo del genere uno come Poli non poteva spartire più nulla, così come dimostrano anche delle pessime interviste visibili in youtube dove Poli, ora annoiato ora evidentemente innervosito, cerca comunque di alzare il tono di conversazioni fatte di domande banali e ritrite.

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Cosa ci resta di Poli. Putroppo il meglio come sempre è rappresentato da quello che non potremo più avere ovvero lui sul palco. A differenza di Totò la sua presenza registrata in video è poca e discontinua, dei video degli anni ’60 con un Poli ancora giovane, un bel ragazzo longilineo che però pareva, a volte, un po’ maestrino nel suo modo di fare, ma penso fosse naturale, gioventù e concorrenza lo spingevano a sottolineare a volte questa sua certo non banale cultura. Poi il Poli maturo, anziano direi, quello che aveva saputo temperare con maggior grazia e senso dell’umorismo, quello che porgeva la sua profondità senza farlo pesare, più come un gesto di onesta civetteria: oltre all’età penso che concorresse  a questo atteggiamento anche la certezza/tristezza di rappresentare oramai una rarità in un mondo di letture affrettate e scarsa curiosità.

PS: Quando una persona muore sarebbe meglio non guardare i giornali, i giornalisti, razza problematica, tendono a proiettare sopra il morto le loro paturnie e i loro desiderata e così, vedo che Poli, da sempre schietto portatore della sua identità (come individuo, non come mero portatore di tendenze sessuali) viene prima di tutto ricordato per quello che lui non è mai stato: un coraggioso omosessuale dichiarato, un difensore dei diritti omosessuali e via dicendo. Ridurre la carriera ampia e complessa di uomo certo non comune a questo è l’ulteriore esempio del degrado di questo mondo contemporaneo. Poli non mostrava simpatia per l’esibizionismo da Gay Pride, non si vestiva da donna fuori scena e non gliene importava nulla di matrimoni e cose simili. Ora, neppure a corpo freddo, lo si investe del ruolo di ambasciatore postumo di cause da lui mai affrontate e neppure considerate degne di tanto baccano.

Crisi che non sono crisi (in coda le 2 prime poesie pubblicate su Gerico splinder)

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La crisi del blog. Una questione che è emersa spesso negli anni. Gerico non è mai caduta ha oramai una discreta resistenza, il primo post (sulla piattaforma splinder) è di Giovedì 20 Settembre 2007. La “morte” di Splinder non ha ammazzato questo blog che non cade e resiste, come dice il suo stesso nome.

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Che inferno (a margine del III canto della Comedia)

Che inferno deve essere quello di chi ascolta musica, legge o vede un film per darsi un tono e non perché sia incuriosito o gli piaccia, un inferno da ignavo, sempre a correre dietro alla bandiera del momento, a quella che gli appaia più colorata e vistosa per l’idea che si è fatto di come deve apparire al mondo, che inferno deve essere l’imporre a se stessi un falso gusto, fingere, magari con il ciglio aggrottato e una mano sotto al mento per dare ad intendere la presenza di un pensiero che non c’è.

IL GIGANTE E IL VAGABONDO – LA STORIA DI ERIC CAMPBELL

Il mondo del cinema muto è costellato di storie tragiche, sembra quasi che fosse inevitabile il giocare tutto per tutto e che la morte, l’annullamento, la povertà estrema, fossero la necessaria minaccia per poter creare qualcosa di duraturo. La morte, l’hanno detto in tanti, è uno degli inspiegabili motori dell’arte e di croci è costellata la via del pionieristico, pazzo, geniale cammino del cinema dei primi decenni del secolo passato. Forse ancora oggi questi tragici epiloghi hanno ancora spazio, ma resta l’impressione che all’epoca fosse davvero un gioco pericoloso e che a mettere la propria pelle sul tavolaccio fossero tutti, compresi i più grandi. Una serie di errori e anche le più luminose carriere potevano svanire per sempre.

  Tra queste molte croci oggi voglio brevemente ricordare quella dell’uomo che, per undici film, dal maggio del 1916 all’ottobre del 1917, ha rappresentato qualcosa di molto importante per Charlie Chaplin: Eric Campbell. Se nelle molte vite vissute da Chaplin c’è una fase dove il vagabondo è uscito dal suo rango di stella isolata e si è accostato a qualcosa che poteva sembrare una spalla comica è proprio questa vissuta accanto a Campbell. Il volto di Campbell, irlandese classe 1879, è conosciuto e ignorato al tempo stesso. Certamente nei ricordi di molti di voi questo volto è famigliare

Mentre altrettanto con sicurezza questo altro volto è totalmente nuovo.

Il gigante Campbell (1.98 di altezza) ha rappresentato il cattivo per eccellenza, l’orco dai lunghi baffoni inspidi, una figura grottesca e spaventosa, una sorta di Barbablù, intento a corteggiare, solitamente con pessimo esito, la bella di turno, costretto a subire gli attacchi del vagabondo, ma anche in grado di restituire con forza alcuni colpi.

Certo sarebbe eccessivo dire che Chaplin e Campbell abbiano anticipato Laurel & Hardy, i caratteri erano profondamente distinti e non c’era quella intenzione di farne una coppia comica reale, ma è innegabile che, quando la coppia comica più celebre doveva ancora comparire (nel 1921 faranno la loro prima apparizione assieme), il rapporto tra il vagabondo e il suo gigante iniziava a instillare nel pubblico un sempre maggiore interesse per questa formula a due, il grosso, un po’ manesco, ma anche goffo e gradasso, il minuto, lesto, a volte svanito.


Campbell, a differenza di altri attori dei film di Chaplin aveva alle spalle una formazione teatrale concreta, oltre ad una esperienza nel mondo del musical (era un baritono), insomma sapeva reggere la scena e questo spiega perché Chaplin si trovò ben presto a ritagliare sempre più spazio per loro due: nell’anno e mezzo di lavoro per la Mutual Chaplin girò 12 film, solo in uno non compare Campbell, One A. M., una sorta di eccellente prova di bravura del solo Chaplin, un monologo comico nato magari per sottolineare la mantenuta autonomia dell’attore e la totale indipendenza comica, ma resta il fatto che One A. M., per quanto straordinario, non risulta certo il migliore dei film nella serie di quell’anno e mezzo.

Come dicevo, il mondo del cinema muto è costituito da molte croci. I guai si accumularono tutti in pochi mesi, a giugno la moglie di Campbell morì improvvisamente per un attacco cardiaco, lasciando l’attore in uno stato di prostrazione che lo condusse ad esagerare con gli alcolici. Come se non fosse abbastanza pochi giorni dopo la morte della moglie l’unica figlia, Una, venne investita da un auto mentre andava a comprare un abito per il lutto: la ragazza riportò gravi ferite dalle quali si riprese solo con un lungo periodo a letto. Già questi due eventi avrebbero potuto schiantare un uomo, anche se mastodontico, ma vi si aggiunse un fatto che, in principio, parve uno spiraglio di luce. Campbell conobbe Pearl GIlman, attrice di vaudeville. Gilman nonostante la sua giovane età,  poco più che ventenne, aveva alle spalle già due divorzi lampo con facoltosi ex mariti e Campbell in quel momento, nonostante i problemi personali, vedeva la sua stella brillare: aveva seguito Chaplin alla First National e dunque il 1918 sarebbe certamente stato un anno di intenso lavoro e di ottimi incassi. Campbell perse letteralmente la testa e cinque giorni dopo aver incontrato la Gilman la sposò. L’assurdità di questo gesto dovette apparirgli presto, magari durante qualche intervallo di sobrietà, visto che tenne nascosta la cosa per settimane alla figlia convalescente. Secondo copione due mesi dopo la Gilman chiese il divorzio dichiarando di aver subito violenze e insulti da Campbell. La cosa spinse ulteriormente nell’alcol Eric che il 20 dicembre 1917, alle 4 del mattino di ritorno da una festa, rimase coinvolto in un grave incidente stradale restando ucciso sul colpo. Chaplin si mostrò rattristato, anche se tentò immediatamente di trovare un sostituto per il ruolo di Campbell (dobbiamo però ricordare che all’epoca il ritmo di produzione era vertiginoso, praticamente una commedia al mese e Chaplin era molto esigente). La tragedia non finisce purtroppo. Campbell venne cremato, ma nessuno si fece avanti per pagare le spese del funerale e così per diversi mesi le ceneri di Campbell rimasero abbandonate al Cimitero Rosedale. Sei mesi dopo vennero inviate, sempre senza che qualcuno pagasse la sepoltura o reclamasse l’urna, alla Handley Mortuary. Rimasero in questo luogo per anni, fino al 1938 quando la Handley chiuse e rinviò le ceneri a Rosedale.

Solo nel 1952 un dipendente del Rosedale pagò di sua tasca le spese consentendo che Campbell ricevesse una sepoltura. Oggi le ceneri di Campbell giacciono da qualche parte a Rosedale, recentemente è stata apposta una lastra commemorativa nel cimitero, ma sotto non c’è l’urna che, al momento, risulta smarrita. Nessuno ha mai reclamato i resti di Campbell. Se le vicissitudini delle ceneri di Campbell sono comprensibili mettendosi nei panni della figlia (una quindicenne, rimasta orfana e senza un supporto economico, costretta a tornare in Inghilterra e a trovarsi un lavoro in fretta e furia per sopravvivere) rimane l’amaro in bocca nel pensare alla totale assenza di un intervento di Chaplin in favore della figlia del fedele collega. Chaplin era certo molto impegnato e mieteva successo dietro successo, ma resta il fatto che, se si osservano ancora oggi gli undici film dove compare Campbell, appare chiaro che parte della fresca comicità di questi nasce proprio dalla perfetta alchimia tra il vagabondo e il suo gigante, una alchimia che forse avrebbe meritato post mortem un maggiore segno di riconoscenza.

PS: Sulla vicenda di Eric Campbell consiglio un recente documentario, Chaplin’s Goliath