ALEX BUTTERRWORTH – IL MONDO CHE NON FU MAI ovvero TANTO PER RIBADIRE UN CONCETTO

Il mondo che non fu mai di Alex Butterworth è una lettura interessante e disperante, interessante perché fornisce tanti dati storici in merito a qualcosa che già sappiamo, o almeno dovremmo sapere, disperante perché ci conferma che le nostre peggiori paure non sono basate sopra fantasmi e fantasie romanzesche. Butterworth narra di anarchici, spie, agenti segreti, controspionaggio, tra la Comune di Parigi e la prima Guerra Mondiale, un periodo che, forse ancor più della Rivoluzione Francese, ha costruito e definito il mondo che oggi ci tocca in sorte. Ma quale è il messaggio interessante e disperante? Gli attentati più sanguinari e sconvolgenti non sono mai opera di veri e propri anarchici, o meglio, se lo sono si tratta di pedine inconsapevoli dei servizi segreti. I servizi segreti, a loro volta, possono essere parzialmente “inconsapevoli” che il mandante, solitamente una figura di spicco dotata di ampi fondi per finanziare azioni eclatanti, sia uno dei loro che si è reso indipendente e gioca a scatenare la tensione per ricavarne ancora più lavoro e potere. Questo è il vero contenuto di oltre 500 pagine di ricerca di Butterworth, non esistono i gruppi “malvagi”, la Spectre, il grande nemico, in realtà, direttamente o indirettamente, si tratta sempre degli stessi Stati che, attraverso loro intermediari (magari doppiogiochisti) trovano l’allocco, il giovane particolarmente impressionabile, gli fanno il lavaggio del cervello e lo mandano  farsi saltare per aria, seguito da rivendicazioni di vario genere. Butterworth è una persona onesta, lascia emergere fin dall’inizio a chi vanno le sue simpatie, ma nonostante questo non lascia il lettore privo di una documentazione tale da farsi una idea delle situazioni. Tra i molti personaggi incuriosisce constatare come Marx fosse primadonna e quanto avesse marciato, tra le altre cose, sulla Comune di Parigi, sfruttandola quando oramai prossima alla fine, senza essersi mai realmente speso a suo favore. Gli allievi non erano da meno e così leggiamo di come in Svizzera Utin, pur di assicurarsi appoggi tra i ceti benestanti, si sforzasse per rallentare e perfino bloccare i provvedimenti a beneficio dei lavoratori. Gustoso il siparietto, di prima mano, dell’effetto che la predicazione di Marx e colleghi faceva sugli operai, in pratica una autentica operetta astrusa, un continuo sfoggio di profonda consapevolezza e geniale cultura social/filosofica, ben distante dal senso stesso del lavoro e del sopruso; come è comprensibile la cosa lasciava gli operai piuttosto infastiditi, dato che puzzava di presa in giro, come più di un anarchico ebbe modo di annotare durante le proprie esperienza tra i lavoratori. Tutti giochi di potere e trappole dialettiche che gettano una ulteriore luce sopra molte delle mezze tacche che ci vediamo ancora attorno oggi.

  Una lettura consigliata, aiuta a perdere ogni speranza nel concetto di un mondo dove i buoni e i cattivi siano alla luce del sole ed a percepire con profondo sospetto ogni evento disastroso attribuito a certi comodi mandanti.

QUAESTIONES (riproposizione)

Jan Steen, Rhetoricians at a Window, olio su tela, 1666-1669

… che non è questione di farsi chiamare Poliorcete                                   

prendi questo

prendi quello

prendi una villa, un paese, una regione, una contea,

prendi un castello

 –

e tutti ti guardano come se avessi dato tutto in quel momento

neppure considerano che non afferri te stesso,

d’altro canto come potresti afferrare chi afferra

non hai abbastanza mani,

non hai braccia adeguate,

no, non è questione di saper fare e di saper vivere,

anche se già sentire sufficiente il proprio nome è buona cosa.

 –

Getta la mano senza riguardo per il tempo trascorso

Vicoli le vie che si srotolano ai tuoi lati

Cavalieri che s’avventurano, senza riguardo, nella tane dell’orso

Culle ricolme di bambini appena nati

 –

Creare un concetto, creare una idea,

non pensare che sia come un tartufo

roba da maiali

sepolto sotto la terra in attesa,

è volgare, è volgare,

quasi volgare come chi si ferma alla mimica,

chi si atteggia, chi si fa abbacinare

dal cappello, dalle unghie,

non è colore questo non è tintura

non è neppure imbiancatura

no,

senti le parole come fluiscono?

 –

Beh dai, su, bella scoperta,

dice quello che guarda sulla carta,

sanno tutti che quel luogo,

l’università, è, alla fine, un centro di ricerca,

dai non dire così “bella scoperta”,

è certo non è più una idea,

neppure un tartufo

-ma a volte, visto chi ci grufola dentro…..magari…-

no, non è un tartufo,

almeno questa faccenda della ricerca

è più una Fenice senza gas,

già,

le hanno dato una bella fiammata

e poi è venuto fuori il burocrate, il contabile,

con il taccuino fitto fitto di conti in rosso,

e ha detto, dai non si puo’, e ti ha chiuso la valvola,

allora questo mucchietto di cenere?

Tu guardi loro, loro guardano l’oro e te?

Non saprei, mi faccia pensare,

avremmo a casa il corredo buono,

ha presente?

Sa è roba ereditata, lenzuola di qualità,

prendiamo tutto e filtriamo

facciamo un bel po’ di liscivia

– no, non con la a, hai capito male….anche se il dubbio ti viene..-

e giù con il lavoro,

lei che ne pensa,

potrebbe venire da noi a fare tutto questo?

 –

Ma riattaccare il gas?

No, per carità, non quadrano i conti.

Neppure la canna del gas mi lasciate?

No, non quadrano le ho detto,

e poi era roba vecchia questa, ora deve innovare,

si innovi,

rinnovi,

trovi,

dica,

facci

Facci?!

Facci, facci,

– a quanto pare rinnovano pure la lingua-

 –

Il ritornello non è marginale nell’evoluzione

Di un pensiero che da vari punti è contraddittorio

È un calmare i sensi, una territorializzazione,

Un mettere in poltrona comodo l’uditorio

 –

Sì…ma la ricerca

E basta con sta ricerca,

ha finito? Non può passare la giornata a tempestarci le meningi,

ricerca, ricerca, ricerca,

non serve se non come era ora in polvere,

ci dia pure una lucidata ai gioielli

in particolare le perle

andiamo pazzi  per le perle

 –

perle di mare

perle di allevamento

perle di sottobosco

perle di distaccamento

perle di perle

perle fatte con perle che erano fatte con perle,

perle su perle di perle

sudore a perle

detersivo in perle

perle per l’igiene

 –

E allora trascinatemi nel fossato del castello,

la nebbia non copre le vostre colpe, né le mie,

e le vesti si impregnano dell’acqua versata dalla notte,

sospingetemi avanti, a forza di braccia,

la nebbia non copre le vostre lacrime, né le mie,

mentre io fingerò di farvi resistenza, ma non più,

silente vi vedrò legarmi ad una piccola pertica,

silente

silente, io niente, vi vedrò silente,

aggiustare la mira per rendere minori i colpi

-e sarebbe pietoso?!-

e non vorrò certo

bende per coprire i vostri sguardi,

dovete specchiarvi,

e non vorrò certo

funi troppo deboli per le mani

dovete mirarmi

non cogliermi per sbaglio mentre mi muovo

 –

Per quanti kalpa ho atteso

tra le tombe d’oro?

Ogni tanto mi sorprendevo a pensarlo

disteso in qualche luogo che non è più luogo

perché appena svanito alle mie spalle,

come terra rossa che viene sempre meno,

non ha più ragione d’esistere.

E là in alto ondeggiava un balcone

nell’architettura instabile e nobile

poi ondeggiava una panca, un portone,

e gli davi il nome che volevi, primo mobile,

questo si diceva di qualsiasi oggetto immobile,

perché non si guarisce mai dalla follia del dire

indagando le pieghe che formano il reale,

un piegarsi da corporazione dei tessitori,

piega su piega,

in modi e culture, in circoli animisti,

onda su onda,

un piegarsi da corporazione di surfisti,

tentando la massima contraddizione della logica

di lasciare parole postume a voce,

reali dico,

che risalgano le scale, magari piano,

piano come un vecchio affaticato,

con la sua bombola d’ossigeno

e la sua gola devastata e afona,

parole postume per una voce ammutolita,

un corpo che non sostiene più il suono

che è fuggito da lui, come la sua vita,

parole che non ritrovi tra i tuoi denti,

non vibra la corda vocale,

è tesa, immobile, come ad impiccarti la gola

dall’interno,

una esecuzione lenta e intimidita,

spalanca la finestra, guarda fuori,

la strada inutile

vicoli le vie che si stendono sotto al tuo sguardo,

tra la nebbia artificiale che puzza di sciacallo

e teste che si muovono come biglie

lungo un piano inclinato

ora salgono ora scendono,

teste sotto, un tempo attorno,

sommità delle quali non distingui la faccia,

un tempo occhi che scrutavano

ora coperchi di vasi colmi di tutto e niente,

e ridi,

in silenzio certo, neppure un ridere scoppiettante e increspato

no,

neppure una parodia di un rantolo ti hanno oramai lasciato,

ridi

del nome della via

ridi

dell’assediatore che compie il suo mestiere

ma da sotto

della sensazione che non vi sia un bel niente

ma di sopra

-per alcuni pure quello sopra  è un assediatore, a crederci ovvio-

e poi finisce tutto,

d’un colpo,

non si condensa più il respiro sulla mascherina,

l’hai buttata per terra,

la finestra, vasta, amplificata dalla concentrazione del tuo sguardo,

la tua voce è là fuori,

lo sai,

quella voce strappata, quel figlio tutto tuo,

là fuori,

quel bimbo che non avevi potuto più tenere stretto

per il tremore delle mani e la debolezza,

quella voce

che tu vai a cercare

a piombo

tutto desiderio

 –

E poi d’un tratto è meriggio su tutti i colli,

silenzio su tutti i frutti,

un silenzio di papaveri nella luce

che assorbi attraverso le palpebre,

l’aria non s’affatica a rientrare nella gola,

entra ed esce

con la costanza del nuotare d’un pesce,

entra ed esce

con il costante battito d’un uccello che vola

senza più bisogno di strade, di vie,

di tracciati delimitati, di confini inventati,

ma là è confine solo dove un seme è precipitato

spinto a caso in salita,

atomo impazzito,

là è confine dove non si distingue vita da vita

perché tutte si compenetrano e giacciono assieme,

là è confine dove non v’è cosa che voglia arrestare il vento

dove non vi è più sforzo di frenare quello che si muove

dove al soffiare intenso non c’è un alzare frettoloso di baveri

là dove d’un tratto è meriggio e silenzio su tutti i frutti

un silenzio perfetto di papaveri.