Jan Steen, Rhetoricians at a Window, olio su tela, 1666-1669
… che non è questione di farsi chiamare Poliorcete
prendi questo
prendi quello
prendi una villa, un paese, una regione, una contea,
prendi un castello
–
e tutti ti guardano come se avessi dato tutto in quel momento
neppure considerano che non afferri te stesso,
d’altro canto come potresti afferrare chi afferra
non hai abbastanza mani,
non hai braccia adeguate,
no, non è questione di saper fare e di saper vivere,
anche se già sentire sufficiente il proprio nome è buona cosa.
–
Getta la mano senza riguardo per il tempo trascorso
Vicoli le vie che si srotolano ai tuoi lati
Cavalieri che s’avventurano, senza riguardo, nella tane dell’orso
Culle ricolme di bambini appena nati
–
Creare un concetto, creare una idea,
non pensare che sia come un tartufo
roba da maiali
sepolto sotto la terra in attesa,
è volgare, è volgare,
quasi volgare come chi si ferma alla mimica,
chi si atteggia, chi si fa abbacinare
dal cappello, dalle unghie,
non è colore questo non è tintura
non è neppure imbiancatura
no,
senti le parole come fluiscono?
–
Beh dai, su, bella scoperta,
dice quello che guarda sulla carta,
sanno tutti che quel luogo,
l’università, è, alla fine, un centro di ricerca,
dai non dire così “bella scoperta”,
è certo non è più una idea,
neppure un tartufo
-ma a volte, visto chi ci grufola dentro…..magari…-
no, non è un tartufo,
almeno questa faccenda della ricerca
è più una Fenice senza gas,
già,
le hanno dato una bella fiammata
e poi è venuto fuori il burocrate, il contabile,
con il taccuino fitto fitto di conti in rosso,
e ha detto, dai non si puo’, e ti ha chiuso la valvola,
allora questo mucchietto di cenere?
Tu guardi loro, loro guardano l’oro e te?
Non saprei, mi faccia pensare,
avremmo a casa il corredo buono,
ha presente?
Sa è roba ereditata, lenzuola di qualità,
prendiamo tutto e filtriamo
facciamo un bel po’ di liscivia
– no, non con la a, hai capito male….anche se il dubbio ti viene..-
e giù con il lavoro,
lei che ne pensa,
potrebbe venire da noi a fare tutto questo?
–
Ma riattaccare il gas?
No, per carità, non quadrano i conti.
Neppure la canna del gas mi lasciate?
No, non quadrano le ho detto,
e poi era roba vecchia questa, ora deve innovare,
si innovi,
rinnovi,
trovi,
dica,
facci
Facci?!
Facci, facci,
– a quanto pare rinnovano pure la lingua-
–
Il ritornello non è marginale nell’evoluzione
Di un pensiero che da vari punti è contraddittorio
È un calmare i sensi, una territorializzazione,
Un mettere in poltrona comodo l’uditorio
–
Sì…ma la ricerca
E basta con sta ricerca,
ha finito? Non può passare la giornata a tempestarci le meningi,
ricerca, ricerca, ricerca,
non serve se non come era ora in polvere,
ci dia pure una lucidata ai gioielli
in particolare le perle
andiamo pazzi per le perle
–
perle di mare
perle di allevamento
perle di sottobosco
perle di distaccamento
perle di perle
perle fatte con perle che erano fatte con perle,
perle su perle di perle
sudore a perle
detersivo in perle
perle per l’igiene
–
E allora trascinatemi nel fossato del castello,
la nebbia non copre le vostre colpe, né le mie,
e le vesti si impregnano dell’acqua versata dalla notte,
sospingetemi avanti, a forza di braccia,
la nebbia non copre le vostre lacrime, né le mie,
mentre io fingerò di farvi resistenza, ma non più,
silente vi vedrò legarmi ad una piccola pertica,
silente
silente, io niente, vi vedrò silente,
aggiustare la mira per rendere minori i colpi
-e sarebbe pietoso?!-
e non vorrò certo
bende per coprire i vostri sguardi,
dovete specchiarvi,
e non vorrò certo
funi troppo deboli per le mani
dovete mirarmi
non cogliermi per sbaglio mentre mi muovo
–
Per quanti kalpa ho atteso
tra le tombe d’oro?
Ogni tanto mi sorprendevo a pensarlo
disteso in qualche luogo che non è più luogo
perché appena svanito alle mie spalle,
come terra rossa che viene sempre meno,
non ha più ragione d’esistere.
E là in alto ondeggiava un balcone
nell’architettura instabile e nobile
poi ondeggiava una panca, un portone,
e gli davi il nome che volevi, primo mobile,
questo si diceva di qualsiasi oggetto immobile,
perché non si guarisce mai dalla follia del dire
indagando le pieghe che formano il reale,
un piegarsi da corporazione dei tessitori,
piega su piega,
in modi e culture, in circoli animisti,
onda su onda,
un piegarsi da corporazione di surfisti,
tentando la massima contraddizione della logica
di lasciare parole postume a voce,
reali dico,
che risalgano le scale, magari piano,
piano come un vecchio affaticato,
con la sua bombola d’ossigeno
e la sua gola devastata e afona,
parole postume per una voce ammutolita,
un corpo che non sostiene più il suono
che è fuggito da lui, come la sua vita,
parole che non ritrovi tra i tuoi denti,
non vibra la corda vocale,
è tesa, immobile, come ad impiccarti la gola
dall’interno,
una esecuzione lenta e intimidita,
spalanca la finestra, guarda fuori,
la strada inutile
vicoli le vie che si stendono sotto al tuo sguardo,
tra la nebbia artificiale che puzza di sciacallo
e teste che si muovono come biglie
lungo un piano inclinato
ora salgono ora scendono,
teste sotto, un tempo attorno,
sommità delle quali non distingui la faccia,
un tempo occhi che scrutavano
ora coperchi di vasi colmi di tutto e niente,
e ridi,
in silenzio certo, neppure un ridere scoppiettante e increspato
no,
neppure una parodia di un rantolo ti hanno oramai lasciato,
ridi
del nome della via
ridi
dell’assediatore che compie il suo mestiere
ma da sotto
della sensazione che non vi sia un bel niente
ma di sopra
-per alcuni pure quello sopra è un assediatore, a crederci ovvio-
e poi finisce tutto,
d’un colpo,
non si condensa più il respiro sulla mascherina,
l’hai buttata per terra,
la finestra, vasta, amplificata dalla concentrazione del tuo sguardo,
la tua voce è là fuori,
lo sai,
quella voce strappata, quel figlio tutto tuo,
là fuori,
quel bimbo che non avevi potuto più tenere stretto
per il tremore delle mani e la debolezza,
quella voce
che tu vai a cercare
a piombo
tutto desiderio
–
E poi d’un tratto è meriggio su tutti i colli,
silenzio su tutti i frutti,
un silenzio di papaveri nella luce
che assorbi attraverso le palpebre,
l’aria non s’affatica a rientrare nella gola,
entra ed esce
con la costanza del nuotare d’un pesce,
entra ed esce
con il costante battito d’un uccello che vola
senza più bisogno di strade, di vie,
di tracciati delimitati, di confini inventati,
ma là è confine solo dove un seme è precipitato
spinto a caso in salita,
atomo impazzito,
là è confine dove non si distingue vita da vita
perché tutte si compenetrano e giacciono assieme,
là è confine dove non v’è cosa che voglia arrestare il vento
dove non vi è più sforzo di frenare quello che si muove
dove al soffiare intenso non c’è un alzare frettoloso di baveri
là dove d’un tratto è meriggio e silenzio su tutti i frutti
un silenzio perfetto di papaveri.