CARMELO BENE (Alberto Arbasino, Repubblica -pardon-, 12 aprile 2012)

Riporto il vorticoso ricordo di Arbasino di C. B.

Tanti anni fa, i critici drammatici «togati e patentati» non frequentavano certo le cantine “off”. Assistevano alle frequentissime grandi prime delleg randi compagnie, nei teatri maggiori, e componevano ampie recensioni di tipo saggistico, con attenzione ai dettagli e vasta circolazione di idee. Interferenze letterarie continue. Ma nessun “teatrino” minore, così come niente spettacoli di rivista, nemmeno per Totò o Macario o la Osiris. Né tantomeno per gli enormi successi dei Legnanesi dialettali, a Milano, in quel santuario dei Ricci e delle Pagnani che era l’ Odeon delle signore della scenae delle signore dabbene. Tutto cambiò con Carmelo Bene, credo. Forse veramente lo “scoprimmo” con Ennio Flaiano, e qualche dotto inevitabile paragone con Antonin Artaud, su una modesta scena remota dal centro storico e dai circuiti “bien”. Altro che maniere chic, là. Ogni dettaglio sembrava – ed era – approssimativo e casuale. Altro che le geometrie post-brechtiane di Strehler o le raffinatezze minuziose di Visconti o le accurate eleganze di tanti altri. Il set di quella Salomè indimenticabile poteva rappresentare l’ after hours di un produttore povero. Bottiglie vuote di whisky e sambuca sparse in terra per dare l’ idea dell’ orgia, fra cenci Art Nouveau da piazza Bologna appesi a corde da bucato. Soli mobili, un radiofono-bar-tabernacolo, e una pattumiera foderata con la stessa peluche rossa dei palchi all’ Opera. Tutti i personaggi in scena, abbigliati di fantasiosità rossee-oro, con tiare, mitrie, paralumi, passamanerie, fiori di pezza, mimando l’ Alba Dopo il Party in Piscina nella Notte d’ Antonioni: sguardi opachi, avanti-e-indietro casuali, sigarette a metà, bicchiere che non si sa se mettere giùo portare alla bocca. Come disco, Santa Lucia luntana. Poi cambia, ed ecco il Danubio blu. «Wilde oltraggiato», intitolarono i giornali. Provocando finezze d’ epoca: «Pascoli ustionato da uno scoppio di bombole», «Carducci derubato di giambi ed epodi». «D’ Annunzio investito da una Giulietta che fugge». Ma prima di attaccare col testo d’ Oscar Wilde per almeno un quarto d’ ora Carmelo abbigliato come il Nerone di Petrolini traballava bofonchiando inintelligibile. Erodiade era un travestito florido e protervo, sempre con una schiava in braccio. Salomè, impostata come un Calibano da filodrammatiche, un ragnetto col sedere coperto di lividi, saltellando a quattro zampe e uggiolando «voglio la testa, yé-yé» con versi da Beatles ogni volta che Erode le offre pavoni o crisopazi. Franco Citti in accappatoio (Jokanaan) a furia di rifiutare drinks viene afferrato, spogliato, cacciato in un bidone beckettiano. E lì, «Fateme uscì! O armeno, dateme da magnà!». Quando si attiva il testo, ove proliferano e serpeggiano le allucinazioni e le metafore, Carmelo dice anche le battute di altri. «Guarda la luna, non ti sembra una principessina circonfusa di veli?». Ma Erodiade, stizzosa: «No». Allora lui, con nasalità lascive e gesti suadenti: «Non pare una principessa abbigliata di bianco e viola, con un godet qui e una pince là, alcuni disturbi nervosi, un papà burbero ma di buon cuore, una zia con un passato galante?…». Qui Richard Strauss sarebbe ovviamente beato, raddoppierebbeo triplicherebbe la sua Salomè. E il divino Pavarotti: «Tu pure, principessa, nella tua fredda stanza, guardi le stelle, che brillano d’ amore, e di speranza»… Ma il travestito, dispettoso: «Macché». «Insomma, almeno una cortigiana che batte gli angiporti, naturalmente di Mitilene, in cerca di marinai non qualunque, solo del Caspio»… Però, ad ogni «Guarda meglio» di Erode, la caparbia Erodiade risponde polemicamente di no, finché sbotta come Wittgenstein: «La luna somiglia soltanto alla luna!». Eccellenti assemblages, subito dopo. Una Manon Lescaut con regìa allo scoperto di Carmelo stesso in prima fila e giacca da gelataio, e un microfono per trasmettere al cast consigli e insulti e versi di Francesco Gaeta e Salvatore Di Giacomo, forse cari a Benedetto Croce ma qui del tutto inservibili. Quando poi lui diventa Des Grieux, è incantevole che Carmelo sia solo, e affaccendato a caricare ben sei Manon, donne dai molti volti, ma strapazzate e malmesse, sulla canna di una sola bicicletta. Non pare una trovata fantastica, alla fine del primo tempo, una parodia guitta e simultanea delle opere più note, con la Traviata che tossisce ed Escamillo che manda baci alla folla, ma intanto Otello e Canio si contendono la Mimì per pugnalarla o strozzarla, e la Tosca viene trattenuta da Pinkerton mentre fa il salto. Però è geniale che nel finalissimo, tutti morti, i corpi vengano visitati da un vero cavallo da opera, condotto da un suo vetturino perplesso. L’ Edoardo II, capolavoro di Marlowe, diventava un vespaio di Earls e Lords intorno a un “duo” indaffarato a smontare un trono fatto di cassette da verdura, e trasformarlo in un lettone king size. Una scelta che coincideva con gli esperimenti coetanei di Peter Brook sul Teatro della Crudeltà. E nella Storia di Sawney Bean l’ innocente e abbondante verslibrismo dell’ autore-editore Roberto Lerici viene ricoperto e sopraffatto da fragori infernali, mentre le tante righe del testo vengono distribuite al pubblico dalla bravissima Lydia Mancinelli. Carmelo stesso butta il resto del testo in un viluppo di sipari che si aprono e chiudono fra luci lampeggianti e grammofoni in libertà. Con O sole mio cantato da Elvis Presley, e un Rosenkavalier – tormentone che ricomincia sempre più accelerato, gettando automaticamente gli astanti in deliquio. Furono felicemente numerosi e assai pensati, gli spettacoli riuscitissimi di Carmelo. Poi, per le Interviste impossibili, alla radio, gli chiesi di interpretare (appunto) Oscar Wilde. Lì facevo un cronista pecione che lo inseguiva di corsa in una stazione piena di fischi di treni. E alle domande più inesperte e balorde, così, lui poteva rispondere con le sentenze di Wilde più celebri. «Non esiste nessun peccato al mondo tranne la stupidità». «Se le classi inferiori non ci danno il buon esempio, si può sapere cosa ci stanno a fare?». «Un cinico sa il prezzo di ogni cosa e il valore di nessuna». «Essere naturali è una posa talmente complicata da tenere». «Adoro i piaceri semplici. Sono l’ ultimo baluardo della complessità». «Il solo fascino del passato è che, per fortuna, è appunto passato». …E le donne?… E l’ amore?… «Tutte le donne invecchiando diventano come le loro mamme: È la loro tragedia. Gli uomini invece no, e questa è la loro… Le donne rappresentano il trionfo della materia sopra la mente, così come gli uomini rappresentano il trionfo della mente sopra la morale… Nessuna donna può essere troppo precisa sulla sua età, o parrebbe una calcolatrice… La quantità di donne a Londra che flirta coi propri mariti è perfettamente scandalosa. Che brutta impressione: è come lavare i propri panni puliti in pubblico… Basta così, o ne volete ancora?». Sbuffi di vapore, fischi del treno. Citazioni convulse. Simone de Beauvoir: «Donna non si nasce, ma si diventa». Joseph Conrad: «Essere donna è tremendamente difficile, perché consiste nell’ aver a che fare con gli uomini». Voltaire: «Le donne somigliano alle banderuole: si fissano quando arrugginiscono». G. B. Shaw: «La volubilità delle donne che amo è uguagliata soltanto dall’ infernale costanza delle donne che amano me». Ivy ComptonBurnett: «Non credo che esista una donna come le altre, forse le altre non esistono, e se ci sono, sono talmente poche che non contano». Si avvicina un doganiere: «Cosa ha da dichiarare, Maestro?» «Solo il mio genio». E poi, dal treno che ormai sta partendo e si allontana sbuffando: «I buoni americani quando muoiono finiscono tutti a Parigi. Se qualcuno scompare, prima o poi ricompare a San Francisco!». Con Ludwig II di Baviera, Carmelo fu perfettamente onirico, fra Wagner e Richard Strauss e czardas anni Trenta di Ivor Novello. Tra Positivismoe Fiaba, tutta una fantasticheria sonnolenta sui ritrovati della moderna meccanica applicati ai castelli in aria bavaresi: cioè un’ anticipazione pratica di Disneyland. Con giudizi politici molto taglienti. Sui lombardi «che respingono un’ amministrazione austriaca perfetta, tutto in orario senza un granello di polvere e senza bisogno del duce». Sulla vergogna del 1866: «allearsi con Bismarck per togliere il Veneto alla patria di Bruckner e Mahler, e attaccarlo a quella di Mascagni!». Ma soprattutto Carmelo sospirava sonnolento. «È già mezzanotte? Non accenda la luce. S’ accomodi su quel cigno, ma se preferisce la renna, non faccia complimenti. Non rompa le uova di struzzo. E attenzione agli obelischi. È comodo? Mi dica pure». Rimanemmo col rimpianto dei film che non si riuscì a fare, per lo spavento dei produttori. Non solo un Super-Eliogabalo con lui svagatamente “crudele”, alla Artaud, in una romanità baraccona, e un Trio Lescano di mamme scatenate alle ultimissime mode e voghe degli anni Trenta. Con musiche di Sylvano Bussotti, magari cantate da Cathy Berberian. Soprattutto, un Principe costante, da Calderón de la Barca, con l’ ostinato eroe cattolico portoghese tutto d’ un pezzo fra le mondanità e seduzioni della Marrakesh contemporanea Mario Ceroli progettava dune desertiche di legno da imballaggio, nel teatrino di via Belsiana, forse con Luca Ronconi dubbioso. Carmelo voleva invece salire e scendere prima giallo e poi rosso o verde o blu tra le famose pozze dei tintori e conciatori a Fès, intrepido e sfidante sotto una massa di turisti fotografi. ALBERTO ARBASINO

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